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Titolo: Il filosofo del fiume

Autore: Fabio Tombari

Data: 1931-06-17

Identificatore: 71

Testo: Il filosofo del fiume

La notte della vigilia Antonio andò al Duomo sotto il rombo delle campane. Solo fra la gente, a sangue caldo tremava.

Contrada e paese erano tutti alzati. Convenivano dai borghi, dal porto, dalle campagne d’intorno, a gruppi allegri sotto le folatine del vento, uomini e donne, e la bocca del Duomo li inghiottiva a due a due.

Antonio entrò. Fu come se si addentrasse in una foresta fra gente diversa e temeva di farsi scorgere.

Quaggiù sotto la volta scura, erano tutti uomini e compagni suoi: i curiosi, i nottambuli che chiacchieravan sommesso, e lassù all’altare, fra ori e fumo, era come se avessero acceso un fuoco davanti al Vescovo.

Donne e devoti stavan lì davanti al pastore, proni, sotto la voce di una lingua morta: Dominus vobiscum.

C’era anche Nuccia che ubriaco fradicio, si dava grandi pugni sul petto cori gli occhi fissi all’altare nell’ampollina del vino.

Poi l’organo rombò: fece come fa il vento e la foresta si scosse e tremava. Come il fogliame l’organo muggiva a bocca chiusa nella bonaccia. Poi il vento crebbe impetuoso, le voci delle canne si moltiplicarono, salirono, attinsero le cime alte. Una zampogna evocò un pascolo: e si levò un canto d’anime.

Pareva che un gregge rotto e disperso belasse in vista d’un lontano presepio.

Antonio non sognò più; cercava nel folto senza pace. E si senti afferrare il braccio.

Era Manara, il vecchio del fiume, che mezzo lacero dentro il cappotto di lupo stava dietro lui in ginocchio come un gigante convertito. E Antonio gli sorrise.

Ora la messa era al colmo. Il Vescovo, reggendosi a mala pena sul bastone d’argento, benediceva la folla, e tutte le campane insorsero nella notte. Ma erano suoni opachi, lontani, gelidi. Manara si levò.

— Nevica — disse e con Antonio si mise dietro la gente che usciva. — Brr, che freddo!

Antonio era agitato.

— Che cerchi? Mi pari un cane che ha perso la pastura — gli disse il vecchio. E, fattosi il segno della croce, s’alzò il bavero e uscì anche lui contro la neve che cadeva pesante. — Stanotte passa l’anitra — disse, e s’avviarono.

O

Passarono il Natale laggiù sul fiume, tutti e due soli nella capanna di terra, davanti a un gran fuoco di sterpaia, con lo schioppo fra le gambe.

Chi vive in silenzio è intimo della morte, e Manara parlava:

— La tèrra è un gigante che si nutre di morte e gli uomini si nutrono della terrà che è nutrita dai morti: cosi la morte ci nutre.

Il giovane fissava il vecchio rosso di fiamma: grande, canuto, solenne, pareva un apostolo: preso con le mani un pezzo di brace, adagio, senza scottarsi, col fuoco sul palmo aizzava la pipa, quella sua gran pipa di ciliegio che docilmente s’era fatta da sé a Pantelleria, dopo che in dodici contro uno lo catturarono per assassinio.

— Sono vecchio, — disse — sono vecchio. Non sono più io quel Manara di cui hai sentito parlare d’inverno. Una volta ero l’invidia dei cacciatori, lo spauracchio delle lepri, lo spavento degli uccelli, la preda dei carabinieri, la distruzione, la morte di quanti animali da pelo e da piuma facevano questa strada dall’Africa al Polo. Ora sono un giubilato della caccia, un invalido, uno che medita sulla morte propria. Ma è tanto bella anche così questa caccia pacifica; forse è più bella.

« Ecco, ti siedi sul greto e credi di esser solo col cane, e fai la posta agli animali che verranno. Ma non passano, non un frullo d’ali, non un volo, non un trillo, il cane non si muove, dorme. Ti pare di essere scarognato, di perdere il tempo, ti senti solo e invece no. Basta accendere la pipa e tutto il mondo" si popola intorno a te e ti senti forte, tutto odoroso di umidità silvestre e marina, col fango nei capelli come un leone; ti pare che il tempo scorra veloce come un fiume di montagna e ti par di esser felice e ti senti libero, ti senti grande e ti pare che il sole ti guardi, che il cane ti adori, che il tabacco sia d’oro. Basta la salute. Ecco, una canna si muove, scricchiola, il cuore s’attuffa, t’allarmi, guati, punti il cane che punta, tremi d’ansia.

« Un animale che passa è come un primo bacio, un’emozione nuova, una delusione nuova, un momento sublime. Basta apprezzarli certi momenti, assaporarli, viverli. Alla sera sei stanco come se tornassi dall’amore. Certe volte stai delle ore, arriva il tramonto e non è passata una piuma: allora basta guardare. Guardi: là il contadino che pota la vigna, un bambino che piange sopra il pane, la campana che piange sul paese, la Ghita che richiama i polli, la figlioletta più giovane che ha portato la vacca alla monta. Poi la strada che si allunga, il mendicante che passa, poi il curato che esce sulla riva del mare a leggere il breviario, a scongiurare i demoni della sera. Poi la sera che scende. Allora il fieno odora come se esalasse l’ultimo respiro; il buio che stringe, e laggiù nella fattoria dei Nardi un carro che entra dentro il muro. Ti vengono in mente certi pensieri strani, senti certi profumi nuovi, certi suoni indistinti, non sai se vicini o lontani.

« Se guardi il Catria che si allontana ti si stringe il cuore, tanto è grande il mondo e ti senti piccino. Allora ti volgi alla città tutta brulicante di luci, viva di femmine e di balli, e ti si allarga il petto come se vi ritrovassi i tuoi fratelli, i tuoi amici dopo aver vagato in una patria lontana.

« Qualche volta ti vien fatto di chiederti perché tanta gente s’affanna, si tormenta, fatica, combatte. Ti chiedi la ragione delle cose, il perché del filo d’erba, il destino delle bestie, il motivo che muove gli uomini e le stelle. Pensi la strada che passa davanti alle case, la campana che va per le case, le case distanti. Allora vedi che il lutto è ovunque e la miseria è grande. Lo scarabeo che s’affatica su per la costa solo col suo sterco è il dannato di Dante, il filo d’erba che piega su se stesso è il dolore che vince; l’agnello che bela è l’innocente che paga per tutti; la foglia che si stacca è l’amore che muore; il vento che spira è la morte che soffia sulla nuca degli amanti, e il mare, quel mare senza sonno, senza requie, questo tuo meraviglioso mare sempre in tormento non è che piànto. Ma tu cosa credi? Pensi che la caccia sia fatta d’altro? E’

fatta di attesa, di speranza, di agguato. Una canna che si rompe è una porta che si spalanca, un mistero che si schiude. T’immagini una belva e non è che un maiale che grufolando cerca di che mordere per ingrassare. Una sera stavo per sparare a due amanti annodati fra il grano. La mia caccia è fatta così: confondere gli uomini con l’ombra, il canto col pianto, il sospiro e lo spasimo, l’amore e le bestie, commiserare il tutto. Credi che sia poco bella la caccia cosi? Certe volte pensi e non sai cosa pensi. Pensi che l’orologio dell’universo abbia il suo attrito e strepiti. Oppure dici: ecco, io sono qui e intorno a me vivono le piante giovani e belle e ognuna di esse è una creatura distinta dalle altre; e a furia di pensare cosi, trovi che non vi è più alcuna differenza fra un magistrato e un sambuco. E vorresti confonderti con la santa natura e vivere per morire con un bel gesto eroico e sacro, tutto bianco di sole. Piran è il mio più caro amico, ma lui ama la caccia di padule e non vede più in là del suo padule, mentre io vedo sempre più in là del mio padule.

« Ma la caccia è bella anche adesso, quando calano i lupi dalla montagna al tempo del pesce di fuori via e delle castagne, e i frati vanno sulla neve a tenere i quaresimali nelle chiese del villaggio. Gli animali passano bassi a volo stanco, fiaccati dal vento e dagli stenti. Gli storni cercano in tanto bianco un po’ di verde; in un solo lauro si buttano a ventine come i poeti del bel tempo antico, e la neve è macchiata di rosso. Allora la caccia è più facile, basta non farsi gelare i piedi mentre sulla bocca del fiume o dentro il capanno guardi nel nevischio e pensi. Alla sera quattro stinchi di legna vecchia e il bicchiere fra le gambe, ti scotti le dita per rubare alla brace l'uliva che hai colta sul campo con le tue stesse mani. Dicono che mentre noi parliamo passano sulla testa le onde erziane con le notizie di tutto il mondo e i suoni di tutte le danze. Piran queste cose non le sa, né si preoccupa di sapere dove vanno a morire quei suoni che han fatto fremere e piangere tanta folla: lui pensa al suo padule, alla sua barca, al tempo che farà domani, alla selvaggina, alla schioppa. Il grano gli vien su bene, il granoturco verrà anche meglio, la vacca ha figliato, poi per Pasqua gli va sposa la figlia; io invece come penso, m’incanto a pensare e vorrei pensar sempre e certe volte, considerando un po’ tutto, mi prende una gran pietà per Quello che sta di là dal fiume, davanti all’opera sua, e non è mai nato, e non ha amici e piange e vorrebbe morire e non può morire ».

Antonio guardò il fiume: gonfio e denso scorreva come ferro liquido. Nevicava sempre senza requie: le cose confuse in una fuliggine bianca e lanosa come una manna di morte.

Fabio Tombari.

File: PDF, TESTO

Collezione: Diorama 17.06.31

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Citazione: Fabio Tombari, “Il filosofo del fiume,” Diorama Letterario, ultimo accesso il 21 novembre 2024, https://dioramagdp.unito.it/items/show/71.