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Titolo: Se fossi Re... Che cosa direi nel mio proclama

Autore: Leo Longanesi

Data: 1931-06-17

Identificatore: 72

Testo: Se fossi Re...

Che cosa direi nel mio proclama

E’ una vecchia canzone; fin da ragazzo la ricordo: Se fossi re, ti farei regina.

La guerra era ancora lontana, mia madre portava la frangia sulla fronte e leggeva L’occhio del fanciullo.

Io raccoglievo i francobolli del Papa e avevo imparato la parola « demivierge ».

« Se fossi Re... ». Questa frase m’è ritornata spesso all’orecchio; talvolta l’ho ripetuta con rabbia.

Essere Re. Il destino non è troppo spiritoso per divertirsi, mettermi una corona sul capo e dirmi: « Ecco, fai quello che vuoi; prendi la chiave delle mura, la spada, la poltrona in Parlamento, la berlina e i generali; tu sei il padrone ». Il destino si diverte in altro modo; se la piglia con un povero scrivano d’ufficio, lo manda in pensione, poi fa nascere una rivolta solo per il gusto di togliergli quei quattro soldi, di lasciarlo morir di fame, di vederlo correre agli sportelli dei nuovi uffici, e iscrivere istanze in carta bollata al nuovo governo, e spegnersi poi come una candela alla fine dello stoppino. Il destino è moralista, astuto, e sornione come un bigotto, crudele e prepotente: se per un attimo ti dà il sole, poi segue la pioggia, uno scroscio d’acqua maledetta ti bagna fin alle ossa, e lo senti ridere alle tue spalle nel fragore delle saette.

° Se ti siedi al suo tavolo, ti lascia vincere la prima mano, poi risponde con una carta sempre più alta della tua. Aprite il giornale:

« Ieri il signor Carlo Bertucci, assieme alla moglie e ai suoi quattro figliuoli, per trascorrere il pomeriggio domenicale, si è recato in Campagna, nei pressi di Serenio. Giunta in un luogo ombroso, la famiglia sostò e consumò la consueta merenda. Dopo un quarto d’ora, il figlio minore accusava forti dolori al ventre; a distanza di pochi minuti, il male colpiva i fratelli, poi il padre e la madre. Ricoverati d’urgenza, dopo atroci sofferenze, gli infelici cessavano di vivere. La disgraziata fine della famiglia Bertucci deve attribuirsi a un avvelenamento coi funghi ».

Il destino si diverte a questo modo. Un tempo, la storia era meno chiusa ai poveri privati; il destino, più giovane d’oggi inacidito dagli anni, stava meno attento alle nostre faccende: si poteva diventare Re e salire sul cielo dell’Europa come una stella filante.

« Cittadini, imparate a vivere... »

Se potessi diventare Re, se il destino lasciasse certi suoi pregiudizi, se mi alzassi un mattino e udissi la fanfara dei dragoni giù in cortile e scorgessi una corona ricamata sulla fodera del cuscino, sulla camicia da notte e sulle pantofole, allora, allora...

Allora tirerei il nappo del campanello, chiamerei il segretario e detterei questo proclama da affiggere ai muri:

« Da tempo, leggo con fatica i giornali, osservo le fotografie, di buon’ora mi affaccio al balcone e qualche volta, perfino, esco in incognito: sono convinto, almeno di come può esser convinto un Re, che i cittadini siano invecchiati prima del necessario e la vita d'ognuno sia troppo sonnacchiosa, cauta, previdente, floscia tome un paio di calzoni abbandonati sulla spalliera di una seggiola.

Il ragazzino del droghiere qui di faccia non rompe più i vetri del vicinato come faceva suo padre, col quale giuocai trent’anni addietro; non toglie il catrame dai pali del telegrafo e non corre più lungo il marciapiede sfregiando i muri col taglio di un decino: noi facevamo questo giuoco ogni giorno, per tutte le vie, con un chiodo, col lapis, il gesso e i ciottoli più aguzzi. Come questo ragazzo, ne ho visti altri; ho visto i vostri figli, cittadini, e ne sono rattristato.

Leggo i nostri giornali! Che tristezza! Che squallore! Che noia soprattutto. Sempre quei calzoni afflosciati sulla seggiola!

Vanno in Russia o in America, questi giornalisti, per raccontarci che il cielo d’Italia è introvabile! Scrivono ricordi di guerra come resoconti di feste da ballo!

Li mandano per il mondo, viaggiano, vedono e tornano a casa con lo stesso pollo morto che avevano rubato in cucina prima di partire. Non leggeteli, non pagateli: « Nulla è dovuto al fattorino ». Imparate a vivere, poi a leggere.

Noi abbiamo bisogno di vivere, cittadini, siamo invecchiati innanzi tempo; sono lontane le ghirlande e i funerali.

Il figlio del mio vicino ha appena vent’anni e già pensa alla posizione; corre con la sua laurea sotto il braccio per tutti i Sindacati e corteggia la figlia del Podestà, zoppa e col naso rincagnato: costui ha rinunziato a vivere da uomo e si comporta da servo.

I vostri figli, cittadini, non sono più giovani; dopo venti inverni già conoscono i sorrisi dell’adulazione e i biglietti di raccomandazione; è finito il libeccio degli anni senza legge!

La previdenza uccide i popoli

E’ morto Buffalo Bill. Chi corre più rischi?

Meglio i vizi dell’adulazione a vent’anni. I vostri figli non hanno più sogni, più speranze; si assicurano sulla vita e non spaccano il salva-denaro. Non verrà più Ippolito Nievo. Nessuno fuggirà più di casa. Chi seguirà un circo equestre? Chi tenterà le vie del mare? Chi rapirà una fanciulla? Aprite le porte, cittadini, la previdenza sociale uccide i popoli.

Tutti i cavalli ritornano alla stalla, torneranno anche i giovani. Tutto si ricompone; tutto finisce a tavola, a questo mondo. Morale e vecchiaia spingono l’uomo a cercare l’agiatezza.

Garibaldi aveva letto il Tempietto di Venere; io pure l’ho letto ».

« Le cose si fan sempre più difficili — direi nel proclama. — non si sa più distinguere, ormai, un ciarlatano da uno storico, un filosofo da una donna di servizio, un’aquila da un gallo. Tutto è difficile, dove tutto è chiaro.

E’ una grande provincia l’Italia, una piazza; tutti si conoscono, uno per uno. Ci si affaccia sull’uscio di casa per sapere: tutto si spiega in Italia.

Ecco il postino, ecco il soldato, ecco il dottore e la guardia e il marinaio, e la donna che canta, e l’uomo che dipinge le case, e il prete, e il ladro: ecco, conosciamo già tutti; non un mistero, non un segreto. Le cose cambieranno, il soldato diventerà generale, il postino ministro, la donna salirà il palcoscenico, rimbianchino metterà la feluca, ma noi conosciamo le loro case e i loro cortili; i loro segreti sono anche i nostri. Tutto si spiega, in Italia. Nè i laghi, né il mare hanno misteri: il pesce rosso nei maceri, la tinca negli stagni, la trota nei fiumi, l’anguilla nelle paludi, la medusa nel mare. I numeri delle case non hanno misteri e chi cerca trova.

Tutto si spiega, con l’orario dei treni. Mille paesi in fila, uno accanto all’altro, scritti allo stesso modo, solo le città scritte più in grosso, ma dovunque si posa il dito, già se ne sa abbastanza: Radicofani, 2 bis accelerato, si arriva alle 7, Pensione Verdemare, Luchini sull’uscio coi calzettoni di lana, la Casa del Fascio, l’Albergo Falcone, il bettolino coi fiori nelle casse del cognac e la Strega nella scansia, il manifesto del Ferro-China sotto la tettoia, il Nuovo Giornale sul tavolo, la strada bianca, i villini; e nei villini i benestanti coi calzoni di tela, ma nessuno vive con l’animo tormentato da dubbi: tutti sanno che Dio sta in cielo, lo sanno da quando son nati, non lo scordano più, ma a nessuno vien voglia di chiedersi: E semmai non ci fosse? Quel che si cerca, in Italia, tutti lo sanno; quel che non si sa, nessuno lo cerca.

Perchè non essere più semplici?

Perchè render le cose tanto difficili?

Ogni giorno si leva il sole; ogni mattina nasce una donna e i fiori ritornano come le stagioni. Tutto si spiega, tutto ritorna.

Ritorneranno le guerre; partiremo anche noi, come gli altri, poi ritornerà la pace, l’acqua nei fossi, il fringuello sui faggi, la donnola fra il grano; Annetta sarà sull’uscio, col figlio del postino; la Strega nella scansia del buffet di Radicòfani; un manifesto parlerà chiaro, ancora una volta; il camino della fabbrica manderà un fumo nero, e verrà Il Nuovo con la posta delle otto; e il sole d’estate riscalderà la strada bianca, poi verrà la pioggia e sul cielo turchino ritorneranno le nubi di piombo, e la saetta schianterà nelle notti, e i cani abbaieranno. Fallirà il beccaio, la moglie fuggirà col garzone; il Podestà scoprirà una lapide; nel mese di giugno passeranno i corridori dalle maglie rosse: i ragazzi lì aspetteranno assiepati alla svolta della strada provinciale; nuove risse, nuove bandiere dai balconi e la radio strillerà sulla piazza: E’ convocata la Lega del disarmo.

Si gonfieranno i cuori di lagrime come nubi di pioggia, ma tutto resterà sempre così chiaro, così facile dà intendere, in Italia.

Perchè, allora, non essere più semplici? ».

Questo, direi, se il Destino mi vestisse da Re, in una mattina d’estate.

Leo Longanesi.

File: PDF, TESTO

Collezione: Diorama 17.06.31

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Citazione: Leo Longanesi, “Se fossi Re... Che cosa direi nel mio proclama,” Diorama Letterario, ultimo accesso il 17 maggio 2024, https://dioramagdp.unito.it/items/show/72.