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Titolo: Il bacio

Autore: Fabio Tombari

Data: 1932-11-30

Identificatore: 1932_512

Testo: Il bacio
Era uno di quei meriggi rossi e pesanti in cui i mietitori cessano di cantare in mezzo al campo, quando il cielo carico di nuvoli s’abbassa fino a toccare il gallo del campanile. C’era nell’aria immota come una pausa, quasi uno spavento.
I due vagabondi, giù per la strada provinciale, fra i campi gonfi di grano, camminavano come due che fuggono davanti al tempo.
Il primo, grande, impettito, procedeva sontuoso, chiuso in un ostinato silenzio, le orecchie tese all’uragano imminente; l’altro, più magro, più giovane, lo seguiva malconcio, a due passi, simile a un gatto dietro ad un imperatore odoroso di pesce.
— Ci siamo — disse il primo — ho sentito il brontolio d’un tuono distante.
— Non ci far caso, Giansenio, sono le mie budella che brontolano — rispose il giovine. E poiché un piccioncino gli attraversava la strada, si mise a inseguirlo: — Tubì, tubì!
— Ehi, giovinotto, — gli disse una voce — lasci stare quel colombo.
I due si voltarono: era una donna, un donnone grande lì sulla asparagiaia del mulino.
— Non ci badi, contessa — fece Giansenio — il mio compagno è un naturalista famoso e ama tanto le piccole bestiole.
Ma la mugnaia non rispose e continuò a fissarli, le mani sui fianchi, fin che li vide perdersi alla svolta.
Lassù, dalla parte opposta, il Carpegna faceva massa all’orizzonte come un nero monte d’inferno che scarica su di sé tutti i temporali in viaggio.
Poi per quella terra incantata passò un soffio d’argento, un respiro di valle: diede un mormorio agli ulivi, un muggito alle querce, un’onda d’oro alle spighe giù fino al mare. I pioppi del mulino ebbero una risata d’argento un po’ scomposta.
Il più giovane dei due vagabondi, colpito dal sole, udì in sé un ronzio d’api d’oro, e s’appoggiò al compagno per non cadere.
— Se dura questo scherzo di non mangiare — disse — io mi sdraio lungo la strada.
Ma il compare lo ammonì.
— Ecco, tu non pensi che al ventre, come un maiale da ingrasso. Guarda piuttosto intorno a te e ammira la magnificenza che ti circonda: ecco perché è bello vagabondare senza far nulla. Se anche due giorni di digiuno ti sembrano un secolo, questo è un secolo d’oro, o Apollo.
— Per carità — fece l’altro — non ripetermi più quel nome che, per quanto bello sia, mi fa venir in mente tutto un pollaio.
— Ecco, — incalzava Giansenio — ecco, tu non vedi intorno a te che polli arrosto o in potacchio.
— Proprio così, quant’è vero Iddio — l’interruppe Apollo; e s’appoggiò alla spalliera del ponte protestando di non voler andare più avanti.
Sotto di loro, in tutto il suo splendore, il Marecchia appariva dritto e biforcuto come la spada dell’Apocalisse: tutto s’era capovolto li sotto: i pioppi, le ciuffaie di tamerici, il cielo, i vagabondi; e già ad Apollo girava la testa.
— E non t’accorgi, dunque — continuò l’altro — che mentre tu ti perdi in ismanie io sto cogitando? Prendi là quelle due canne e dàmmi la cordicella che hai in tasca.
L’altro obbedì: a che contraddirlo? Sapeva che il suo compagno, nonostante l’aria che si dava, aveva un talentaccio grande come un cappello da prete e che a chiacchiere non ce la poteva nessuno.
— Ma non cominciamo con la pesca— disse. — Tu sai che per questo genere di sport non ci siamo tagliati.
— Taci — rispose il compagno — e preparati piuttosto a fare la controparte. Tu sarai il mio servo, ed lo un ingegnere tuo padrone. Chiamami commendatore, dàmmi del lei e non pensar altro.
E come lassù su un’aia vide una schiera di mietitori in siesta, il grande Giansenio saltò nel campo, piantò le canne a distanza e cominciò a biffare il terreno come fosse suo: — Più indietro, a destra, a sinistra! — gridava.
Dal branco dei mietitori neri di sole, come da un gruppo in bronzo, si staccò il capoccia, venne giù col bastone.
— Che fate?!
Ad Apollo tremava la cordicella che teneva in mano, ma l’altro non si scompose.
— Non vede? — disse. — Stiamo misurando il campo per i rilievi catastali. Ecco, qua passerà l’autostrada che andrà a congiungersi col lungomare, ma lei non si preoccupi. Tutt’al più si tratterà di spostare il fienile e di buttar giù uno spigolo di casa.
Il contadino sorrise. Era piccolo e torto, tutto ossa e pelle come un’aquila nuda: gli occhi verdastri, il viso cotto, la testa incipriata dal tempo.
— Cosa vuole, — continuò Giansenio — se tutto dipendesse da noi, lei capisce, siamo uomini facili a corrompersi, si potrebbe far girare la strada e lasciarvi intatta la casa... In ogni modo vedremo d’accomodarci. E poiché il mio aiutante ha sete, verremo anche noi sull’aia a tenervi compagnia e... ci accomoderemo, vedrete che ci accomoderemo.
Il contadino non disse parola e su per gli ulivi deformi della china fece strada ai due fino alla casa.
C’era quassù tutta l’opra seduta intorno a neri boccali e a piatti gonfi di carne, come s’usa nella mietenda.
— Va’ a cavare un po’ d’acqua per questi signori — comandò il capoccia a un garzone facendo l’occhietto alle donne.
Apollo impallidì. Era come uno che ha una visione e barcollava.
— Che ha, si sente male? — chiese la più giovane, mentre gli altri sogghignavano.
— Oh, nulla, signorina, — fece Giansenio — il mio aiutante ha mangiato troppo e ogni tanto gli torna su il cibo. Però, a quanto vedo, godete tutti un ottimo appetito, e questo mi fa molto piacere. Per noi, gente abituata ai grandi alberghi, questo vostro mangiare frugale, senza tovaglia non è molto indicato, ma tant’è, non sia mai ch’io rifiuti il cibo che mi viene offerto con tanta familiarità — disse artigliando un mezzo pollo per la coscia, e prese a mangiare senza che alcuno lo invitasse.
L’altro invece non diceva nulla e sorrideva dagli occhi chiari, come fa il cane; e una giovane lo guardava.
— Ebbene che fai? — gli disse Giansenio — ti pare giusto di presenziare un pranzo senza far onore alla cuoca? Ecco, prendi quest’ala di pollo, non far complimenti. Moderatamente si può mangiare anche due volte. Se poi ti tornasse su il cibo, ricaccialo giù con questo — aggiunse mettendogli davanti il boccale del vino.
Apollo non disse verbo, non alzò gli occhi, non ringraziò nessuno: mangiava. Era come se fosse solo, tutto solo, e a quel mangiare gli venivan giù le lacrime.
— Ed ora — fece Giansenio — vorrei offrire a tutti questi signori un
sigaro per uno, ma ne sono sprovvisto. Ehi, ragazzo, — disse a un rapacchiotto che lo fissava sbalordito — corri allo spaccio, fatti dare una busta di sigari... Come? Non hai soldi? Digli che guardino me, che a pagarli passerò dopo.
Il capoccia intervenne:
— Va’ giù a nome mio — disse al ragazzo. — Ed ora, a lavorare — fece agli altri.
Già tutti s’erano allontanati e le mietitrici ridendo s’erano alzate per raggiungere il campo. — Buon appetito, — dicevano — buon appetito!
Poi una, la più giovane, la più bruna, la più bella, tornò indietro, si nettò la bocca co! fazzoletto, s’accostò ad Apollo, lo baciò con uno schiocco di labbra, e via di corsa verso le altre.
Apollo restò sbalordito, sorridente, come in sogno, incredulo e non aveva più fame. Il suo grosso compare, Giansenio, lo fissava scandalizzato.
Qua e là, fra gli olivi, appariva l’Adriatico d’una tinta bleu scura, un po’ mosso dal vento.
Poi venne la sera, la calda sera dei campi, grande e silenziosa. Sotto l’oro del crepuscolo i due vagabondi giù per la provinciale avevano allungato il passo. Man mano che s’allontanavano spuntavano a due a tre a decine le stelle dell’estate, qua e là, come chiodi d’oro nell’azzurro. La grande Orsa essendo loro davanti, ad Apollo pareva di prendere l’universo di fronte.
— Domani ti lascio, voglio mettermi a lavorare — disse.
Nel fondo la città costiera, grossa e scura, ricca di nuove speranze, aveva acceso le sue prime luci.
Fabio Tombari.

File: PDF, TESTO

Collezione: Diorama 30.11.32

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Citazione: Fabio Tombari, “Il bacio,” Diorama Letterario, ultimo accesso il 17 maggio 2024, https://dioramagdp.unito.it/items/show/768.