Testamento pubblico (dettagli)
Titolo: Testamento pubblico
Autore: Nino Savarese
Data: 1932-12-07
Identificatore: 1932_521
Testo:
Testamento
pubblico
L’ultimo fratello che restava ancora vivo passeggiava per la casa con le mani dietro la schiena, gli occhi a terra, come se andasse cercando qualche cosa.
Era il cognato, che pensava a tutto, e dava ordini alla serva, al fami glio, al muratore, che era un’antica persona di casa ed in quei giorni non si allontanava un momento.
La cassa era sul bancone del falegname che l’avevano finita di imbullettare all’alba e nella notte si era inteso quel picchiare di martello per tutto il vicinato, e tutti avevano pensato che don Gaspare Chiaramonte moriva: («sei mesi dopo dell’altro fratello »: « se ne vanno l’uno appresso all’altro come in processione »).
Per il vestito che dovevano mettergli, dopo morto, la lavandaia era d’accordo con la parente che s’incaricava di queste cose: voleva sapere, solo, quali dovevano essere i bottoni della camicia:
— Quelli d’oro... s’intende — disse generosamente il cognato.
I quattro garzoni di Rossomanno che erano venuti apposta in paese, ed indossavano l’abito delle feste, non ne potevano più di stare seduti nell’ingresso ad aspettare senza far nulla, e guardavano, con tanto d’occhi, quelli che entravano ed uscivano, ed aprivano le orecchie a tutti i discorsi. Ma sapevano bene che in tutte quelle faccende essi non ci entravano. Il loro compito era quello di caricarsi la cassa col loro padrone morto, e portarla alla chiesa vicina; e sembrava che aspettassero il carico.
*
Girando di camera in camera, il fratello si affacciò nell’ingresso, mentre il cognato dava ordini concitatamente. Allorché questi lo vide, rimase contrariato come se fosse stato colto in fallo, e per non restare ammutolito a guardarlo in faccia, disse:
— Ho dato tutte le disposizioni...
L’altro gli diede una guardataccia e gli voltò le spalle: « La fretta del malaugurio... — borbottò — non è ancora morto ». Poi pensò con rabbia: « E’ la terza volta che dà le disposizioni; ne ha sotterrati tre di noi, ed aspetta le terre di Rossomanno ».
Le serve e i parenti non stavano un momento fermi con tante faccende da sbrigare, che anche il sacrestano era andato di corsa ad avvertire che cosa occorreva per improvvisare una specie di altare nella camera stessa del moribondo, e si mettevano sossopra tutti i cassetti.
C’era per tutto un’aria di partenza precipitata, una gran fretta per tutta la casa.
Ma in una cameretta lontana i parenti del cognato sentenziavano, gravi, sulle conseguenze della mancanza del testamento. Tutte le carte erano state frugate; il notaio non né sapeva nulla. Intanto nessuno aveva il coraggio di dire a quel poveretto « fate il testamento », che era lo stesso che dirgli: « badate che siete morto».
Occorreva un uomo di coraggio; si disse, come se si fosse trattato di buttarsi in un mare in tempesta.
Finalmente il moribondo fu interrogato e disse che il testamento lo voleva fare, ma il poveretto non poteva tenere la penna in mano. Allora occorrevano quattro testimoni, estranei alla parentela.
Nemmeno a farlo appósta, in quel momento, i garzoni e il muratore erano stati mandati fuori per certe faccende.
— Subito... subito, scendete in piazza e conducete qui i primi che vi capitano — gridava il cognato in mezzo alla scala.
*
Il moribondo aprì gli occhi e vide quattro facce sconosciute nel vano della porta.
Erano di quegli uomini che portano il segno del mestiere e della bottega sulla persona, e sulla faccia qualche cosa di pubblico e di patito. Tra i volti familiari staccarono subito, per una certa fredda meraviglia e per la loro estraneità.
Il notaio fece cenno che si avvicinassero, ma nessuno dei quattro fece più di mezzo passo verso il letto, quasi volessero difendere il loro privilegio di spettatori...
La camera era piena: i parenti intorno al letto; il notaio seduto nel mezzo, e dietro, fuori la porta, le serve si sforzavano di cogliere l’insieme della scena a brandelli, tra le teste e per le fessure, tra braccio e braccio, di quelli che stavano avanti.
Il moribondo si sollevò un poco sopra un gomito e guardò da padrone, in quel vuoto che formava la gente in mezzo alla camera e che era come un cerchio di pauroso silenzio.
Il notaio disse qualche cosa e tutti si voltarono dalla sua parte quasi sorpresi della sua temerità; poi concentrarono tutti i loro sguardi sul vecchio. Questi, come se quell’attenzione gli premesse lo stomaco, si sentì costretto ad aprire bocca. Quando cominciò a dire « lascio » le quattro facce estranee, chi rossa, chi barbuta, chi allampanata, presero tutte insieme un’espressione di ridestato interesse, come se si dicessero: « Ci siamo... questo è il punto... ora viene il bello ».
« Lascio — continuò il vecchio — le mie terre di Rossomanno... in usufrutto... a mio fratello Agostino ed in proprietà... ai miei nipoti Carlo... e Maria... ».
Il cognato abbracciò la figlia e si mise a piangere; il fratello, che età accanto al letto, strinse la mano del moribondo come si congratulasse con un oratore.
Il moribondo rimase con la bocca aperta, ma nessuno gliela guardava più. Forse, ognuno nel suo interno aveva temuto che le parole attese avessero potuto uscire senza senso, ed invece l’averle cucite l’una con l’altra, così bene, dava a tutti un certo compiacimento; ma pure il desiderio di pensare ad altro. Tutti si mossero come se fosse finita la messa.
*
Quando i testimoni e il notaio, con un sommesso brusio nella camera appresso, cercarono i pastrani e i cappelli, e s’intesero i loro passi giù per le scale, sembrò che fosse comin ciata un’altra epoca, sebbene il vecchio fosse ancora li con la bocca aperta.
Ma non aveva più bisogno di nulla, nemmeno di quelle poche gocce d’acqua che ancora gli passavano sulle labbra col cotone inzuppato.
Il pensiero di Rossomanno, radicato per tanti anni nella sua mente, era volato via dalla sua memoria, e già rodeva gli altri (il fratello, che era rimasto padrone, ma non poteva lasciare nulla al suo bastardo che aveva in animo di legittimare; il cognato, che aveva fatto lo sforzo di calare nella fossa tre fratelli della moglie morta, e non era ancora padrone delle terre di Rossomanno: la fanciulla che vedeva ritardato il possesso della sua dote e il giovane quello della sua bella indipendenza).
All’alba, la morte aveva già messo un grande ordine in tutta la casa.
Sul tavolo del notaio, che la luce rischiarava appena dalle fessure delle imposte chiuse, c’era posato, dalla sera avanti, il foglio del testamento che anch’esso doveva essere messo in ordine nell’archivio.
E sulla traccia di quel foglio si cominciò a tessere un altro periodo della storia dell’ex feudo di Rossomanno.
In quel momento le sue terre lontane e la vecchia casa vigilata dai tre cipressi centenari vedevano un nuovo giorno: le allodole cantavano alte, e le tenere foglioline del grano appena nato si muovevano leggermente al nuovo sole, facendo dondolare le stille lucenti della rugiada, la quale luccicava anche sulle pietre e sulle zolle come se durante la notte la terra avesse pianto.
Nino Savarese.
Collezione: Diorama 07.12.32
Etichette: Nino Savarese
Citazione: Nino Savarese, “Testamento pubblico,” Diorama Letterario, ultimo accesso il 21 novembre 2024, https://dioramagdp.unito.it/items/show/777.