Vino bianco (dettagli)
Titolo: Vino bianco
Autore: Mario Massa
Data: 1933-01-04
Identificatore: 1933_53
Testo:
Vino bianco
Il barbera è truculento, per gente tutta pancia come i ragni; e in ogni modo esige di rigore baffi di fil di ferro, mozziconi di sigari e carte napoletane. Il lambnisco d’altra parte, troppo pesante per salire, cola giù come un’emorragia e si raggruma attorno alle giunture dei ginocchi. Il barolo è troppo tenebroso; infosca.
Dunque l’oste, passato in rassegna i quattro vini, mi disse: « Lasci fare a me, signorino. Per un tipo come lei ci vuole questo »; e si calò in una botola. Tornò su spolverando col grembiule una bottiglia di bianco frizzante. Intendeva dire che si trattava di un vino tenero e docile, da fidarcisi, come d’un poledro ammansito per un viaggio senza scosse. Per un tipo come me: e cioè che si capiva che col vino voleva dimenticare qualcosa, ma dimenticarla dolcemente.
Aveva ragione. Uscendo, vacillavo. Le case, i balconi, le lampade, gli alberi si scostavano al mio passaggio. La strada s’arrotolava dietro di me come un tappeto. Però non m’accadeva come le altre sere che il tentennamento mi torceva in furie e la nuca mi pesava come se avessi portato un baule. Il turbinio era festoso e m’imbaldanziva facendo schioccare la fantasia.
Il mio primo stupore fu per il cielo. Nel dirigermi all’osteria l’avevo lasciato di stagno fuso, che s’afflosciava sui tetti, leccava i bordi delle finestre, cascava fino alle soglie dei portoni, si sfarinava sui selciati e ci camminavo sopra. Invece ora, spaccatosi come una vescica bucata, man mano che camminavo lo sentivo risucchiar su. Giunto che fu ai comignoli, in un baleno, tra una screpolatura e l’altra, sventolarono le prime bandiere di seta azzurra. Anche dalla parte opposta in un baleno si sbendò; e lo stagno si liquefece sbriciolandosi a fiocchi di bambagia come un materasso svuotato. Finché, come se avessero tirato i fili d’un sipario, sullo sfondo nacque un mare: appena appena a fior d’acqua increspato, con in mezzo il tondo della luna. Mi tolsi il cappello salutandola con un inchino settecentesco. Nel compiere l’inchino sentii un gelo al gomito: avevo urtato le alabarde d’un cancello.
Non gridai al miracolo perché questo secondo stupore fu cosi grande che mi tagliò la gola. In cima alle alabarde le corolle dei glicini, dondolando l’una sull’altra, suonavano come campane. Dietro le righe delle sbarre gl’ippocastani, le acacie, i lillà, le roselline a ciocche, i biancospini, eccoli fioriti. Fioriti in quel momento; perché mezz’ora prima, passando di là per andare all’osteria, li avevo visti chiusi. Senza dubbio, dopo il mio passaggio, si sarebbero chiusi di nuovo. Fioriti come se, per magia, un giro d’interruttore avesse acceso la luce entro le guaine e i calici.
Eppure la memoria non m’ingannava. Eravamo a metà di dicembre. Non avevo dunque ragione di vedere, se chiudevo gli occhi, un arcangelo che aveva bevuto anche lui il vino bianco come me e, afferrato anche lui, dalla gaiezza, aveva mescolato i fogli del calendario mettendo il ventidue maggio al posto del quattordici dicembre? Ma che inverno! Con quel caldo? Era primavera. Mi tolsi il cappotto.
Anche le altre strade erano primaverili. La fontana di piazza di Spagna aveva tintinnii di sonagliere simili a quelle dei cavalli che portano 1 paesani alla fiera e la vasca luccicava di gioielli liquefatti. Salii. Una signorina aveva dipinto in acquerello sul cielo la chiesa di Trinità dei Monti. Il cielo, lindo e lucido, l’avevano lavato col sapone. Bucato con lo spiedo, s’era gremito di bianco e sopra Monte Mario crepitava. Evidentemente di là escono le stelle di notte. Monte Mario è il vulcano: sbucano dal cratere e si sparpagliano a zonzo, alcune piccole e altre grosse. Una, tanto era grossa, doveva essere proprio quella di Betlemme. Mi ci aggrappai con gli occhi come i Re Magi la notte che nacque Gesù; ma quella non stava mai ferma e dondolava dietro l'obelisco come se fosse stata appesa a un filo. Il dondolio fu una ninna nanna. Come accadde non so più, ma mi trovai steso a terra con il capo poggiato sul cappotto come sopra un cuscino.
Da terra, diventato ora parallelo ai miei occhi, il cielo mi stava davanti come un coperchio smaltato. Avrei voluto afferrare l’obelisco e picchiarlo contro come un mazzuolo. Che bello scherzo alla città! Avrebbe mandato un suono di gong. Svegliata di soprassalto, la folla sarebbe salita da me a chiedere cosa era successo. Ridevo a questo pensiero, quando qualcuno mi scosse: « Se la ride pure? ». Pare, a quanto mi dissero, che dormivo là da alcune ore. Infatti stirai le braccia come uno che si sveglia.
Il freddo che pioveva dall’alto mi lavò come una doccia. Chiesi l’ora. Mi risposero ch’era l’alba. Raggiunsi la balaustra e la vidi.
O
Il trapasso è veramente teatrale.
Ad un tratto le luci si spengono e si fa buio: questo significa che comincia l’alba.
Bisogna averla vista da Trinità dei Monti per sapere che è cosi. L’illuminazione elettrica che si è spenta è cento volte più forte di quel pulviscolo color di latte che bolle ad oriente. Perciò il primo sbalzo è dalla luce al buio. Tanto che vien voglia di gridare come nei cinematografi quando si interrompe il film e la macchina gira a vuoto: « Luce! Luce! ».
Subito dopo lo sbalzo le strade e le case si sono rinnovate di forma e di colore assumendo una evanescenza di carta velina. Al filtro dei primi raggi la carta velina prende consistenza per diventare a poco a poco solida sotto il crescere del sole. Lo sgomento d’un mistero circola nell’aria che non è più quella della notte ma è diventata improvvisamente un’altra come quando in una stanza chiusa hai spalancate le finestre. Il panorama ti si presenta attraverso un apparecchio stereoscopico che non è ancora bene a fuoco. Le case escono dall’urna nella quale sono state imbalsamate; cieche per le finestre chiuse, tu le senti vuote e non riesci a pensare che vi si pigia dentro un’umanità la quale tra poco stiracchierà le braccia riallacciandosi al dramma che ha lasciato indietro la notte scorsa. Anche i passanti non sono più gli stessi della notte. Ecco il vecchietto curvo sotto il peso dei giornali, la ragazza non più imbellettata ma acerba e solida, l’uomo che scarpiccia frettoloso perché ha ancora molta strada da fare prima di giungere all’officina.
O
Alla soglia della mia casa, mentre infilavo la chiave nella toppa del portone, l’uomo della nettezza urbana che stava spazzando il marciapiede, mi salutò:
— Buon giorno, signorino.
— Buona notte, — risposi.
Avevamo ragione tutti e due. Il sole cominciava a sudar sangue, ma la luna non se la dava per vinta di doversene andare dopo una notte così bella e se ne restava infissa a metà sulla cupola di San Pietro come una moneta d’argento sulla bocca d’un salvadanaio nuovo.
Collezione: Diorama 04.01.33
Etichette: Mario Massa
Citazione: Mario Massa, “Vino bianco,” Diorama Letterario, ultimo accesso il 21 novembre 2024, https://dioramagdp.unito.it/items/show/863.