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Titolo: Tre ragazzi

Autore: Nino Savarese

Data: 1931-07-22

Identificatore: 89

Testo: Tre ragazzi

Si vedevano tutti i giorni, ché le loro case erano vicine: « il figlio della Belloma » di nove anni, « il figlio del carbonaio », di ott’anni e mezzo, e, più grande di tutti e due, il « figlio del Dannato » che ne aveva dieci.

Erano, come suol dirsi, amici: facevano insieme qualche giuoco, ordivano insieme la scalata degli orti del vicinato per rubare la frutta.

Dopo averne parlato per tanti giorni, appartati tutti e tre, in un angolo della piazzetta, con un'aria di mistero e di congiura, finalmente, quella merenda nel poderetto dello zio Belloma, si concertò.

Uscirono gravi e baldanzosi dalla porta del paese, che faceva ancora un gran caldo. Avevano tutti e tre le saccocce piene di pane e del companatico chiesto in casa, alle loro mamme, le quali non avevano mancato di far raccomandazioni: non sudassero troppo, stessero attenti a non salire sugli alberi alti, tornassero, non più tardi dell’Ave Maria.

Lungo la strada, era per i tre ragazzi un succedersi di scoperte, un accendersi di meraviglie, a mano a mano che, scendendo la scorciatoia serpeggiante sul fianco del monte del loro paesello alpestre, anche il ricordo delle vie e delle case dileguava nella vastità della terra solitaria.

Qui balzava improvvisamente ai loro occhi una macchia di more mature, là un fruscio tra i rami era seguito dall’apparizione di un uccello meraviglioso di paesi lontani e misteriosi, che altro non era se non una gazza dalle aiacce bianche e nere: ora i loro cuori balzavano al fragoroso inselvarsi del merlo, oppure all’immagine di felicità interdetta ed allucinata, dj un bell’albero carico di frutta matura, ma custodito da un contadino che vi zappava accanto.

E cosi, per tutto il breve viaggio, i loro sensi ancora nuovi si provavano ad accogliere violentemente tutti quegli aspetti inusitati, o dolcemente si prestavano agli inganni della loro inesperienza.

O

Il podere era abbandonato: troppo piccolo per trattenere dei contadini. Il cerchio del termine si vedeva, come il giro di una piazzetta, e non c’era che un campicello di grano, intorno ad una casuccia di una sola camera a terreno, nera e cadente, sotto un grande olmo solitario.

I passeri, a grandi frotte, facevano un gran gridio sulle tegole, come padroni del luogo, né, sorpresi in quella loro sicurezza, si allontanavano.

Il « figlio della Belloma », che aveva aria di padrone, raccomandava di badare a non calpestare il grano; di camminare lungo il solco, ma i due compagni, smaniosi di esplorazioni, saltavano da un punto all’altro senza badargli.

Si chiamavano, si comunicavano le loro piccole scoperte, ma le loro voci erano troppo deboli: si spegnevano bruscamente nel silenzio del luogo, troppo solitario per quei tre ragazzi soli.

Sedettero per mangiare; parlavano poco, ma di tanto in tanto nasceva qualche contestazione sulle cose da spartire, e allora le parole, non sorrette da altri rumori, pareva che restassero sospese nell’aria in un isolamento pauroso. Non si sentivano contenti: mancava il meglio del piacere che avevano immaginato; nel podere non c’erano alberi da frutto, nel contorno non si vedeva un orto, non c’era modo di provare l’agilità delle loro gambe, né la loro astuzia e la loro bravura.

Stanchi, alla fine, di quel luogo privo di ogni attrattiva, ne uscirono e si misero un’altra volta in cammino.

Il figlio del carbonaio, che era di carattere chiuso e tenace, si tenne in disparte e cominciò per suo conto a ficcare gli occhi furbi nelle tenute che incontrava.

La contrada era priva di frutteti, anzi quasi spoglia di alberi, ma da lontano egli scorse un’aiuola di un bel verde intenso, tra due campi di grano. Era un’aiuola di pomidori e qualcuno ne cominciava a rosseggiare in un punto, come una guancetta infantile. Corse, frugò, ma per quanto frugasse non trovò che tre soli frutti maturi e quelli colse. Attraversando poi i campi di grano per ritornare, s’accorse che uno era di piante più grosse e più bionde, essendo non grano comune, ma grano di Maiorca, ed anche di questo prese un bel ciuffo.

I suoi compagni se lo videro sbucare improvvisamente davanti con quei trofei in mano e lo accolsero con grida ed allegre facezie.

— Abbiamo ancora un po’ di pane, mangiamo i pomidori — disse il « figlio della Belloma » e già allungava le mani.

Il « figlio del carbonaio », con gli occhi a terra, le mani strette, una piega sospettosa nella fronte, disse che quella era roba sua.

— Quello che troviamo è di tutti.

— Voialtri non siete stati buoni a trovar nulla.

— Ma chi ti ha condotto qui? Non ti ci ho condotto io? Quello che si trova è di tutti...

— Questi, li ho presi io, e non ne dò a nessuno.

E sembrava andarsene per conto suo, separato dagli altri, coi tre pomidori in una mino e il ciuffo di grano nell’altra.

Allora il « figlio della Belloma » gli tirò una pietra e lo colse nella testa.

Al colpo, il ragazzo rimase stordito e si accasciò per terra, ma trovò la forza di rispondere con una pietrata.

— Lascia i pomidori! — gli gridò il « figlio del Dannato » andandogli incontro con una pietra in mano anche lui, e facendo l’atto di tirargliela.

Quello non rispose, ma dal modo come teneva strette le mani, pareva che ripetesse ancora una volta: «Non ne dò a nessuno ».

Ed anche l’altra pietra parti, più grossa della prima e tirata con più forza.

O

Alla vista del sangue i due ragazzi rimasero a guardare sbigottiti e non avevano coraggio di avvicinarsi. Il ferito si teneva la testa, ma ad un tratto l’abbandonò sulle pietre che cominciarono a tingersi di sangue. I due si guardarono pallidi, senza dirsi una parola. Poi buttarono i loro fazzoletti perché quello li mettesse sulle ferite e si allontanarono col passo affrettato.

— Mi lasciate solo? — disse « il figlio del carbonaio » con un filo di voce.

Ma i due già correvano, ansando per la salita, e non si voltarono più.

Era già notte e per la viottola, che era una scorciatoia fuori mano, non passava nessuno. Il ragazzo andava perdendo i sensi a mano a mano che il sangue gli usciva dal corpo, perdendosi nella polvere. Non aveva la forza di gridare; teneva gli occhi annebbiati, fissi nel buio della notte che gli si allargava sconfinatamente d’intorno; terribilmente solo col suo corpo e con la sua ferita, che né le sue mani né la sua volontà potevano chiudere.

Con un soffio, che appena egli stesso poteva percepire, ripeteva:

« Mamma mia... mamma mia ».

Il « figlio della Belloma » e il « figlio del Dannato », giunti in paese, se ne andarono quatti quatti a casa, ma prima di separarsi, si concertarono che qualunque cosa fosse accaduta, essi avrebbero detto di non saper nulla, di non essere stati insieme col « figlio del carbonaio », il quale aveva progettato anche lui la merenda al podere, ma poi non si era fatto vedere e non era più andato con loro.

La povera madre, a sera tardi, andò a chiedere notizie del figlio a casa della Belloma. Il ragazzo si stava spogliando per mettersi a letto e rispose che non sapeva nulla, che lui era andato al podere solo col « figlio del Dannato ».

Cullato dall’incertezza di quello che era accaduto nella sua assenza, rassicurato di esser potuto tornare a casa senza sospetto, egli aveva quasi dimenticato il compagno rimasto ferito nella viottola, ma ora a quelle parole, a quelle richieste, la viottola gli balzava davanti agli occhi, chiara, evidente, che ne poteva contare tutti i ciottoli e tutte le rughe, e ve deva il sangue nella polvere e non poteva liberarsi dal pensiero del compagno ferito e dal rimorso.

Udì dalla strada la donna che si allontanava, dicendo: « Dov’è... do v’è il figlio mio... » e cacciò il capo sotto il lenzuolo, ma non per dormire.

Più tardi, quando lo fecero alzare, non volle dire a nessuno, nemmeno ai carabinieri, dove aveva lasciato il compagno, che forse avrebbero salvato se fossero accorsi subito a medicarlo.

Ripeteva: « Io non so nulla, non è stato con noi » e restava a guardare per terra con gli occhi torvi.

Il giorno appresso, spaventato dalle minaccie e da qualche carezza dei carabinieri, parlò il «figlio del Dannato » ma era troppo tardi.

O

All’alba, il primo che fece la scoperta, chiamò un contadino che mieteva in una tenutella sopra la viottola:

— Avete veduto che qui c’è un ragazzo morto?

— Io non ho visto nulla.

E corse con la falce in mano.

— Io vado a far, la denuncia, restate voi a guardare il morto.

— Oh! padre! — chiamò quello della falce, e lasciò il vecchio a far la guardia, ché lui doveva mietere, e non si sapeva quando sarebbe venuta la forza.

Un crocchio di gente guardava il « figlio dei carbonaio » disteso nella viottola. Il piccolo volto bianco sembrava si fosse calmato, in quel momento, nell’immobilità della morte, e gli atti e le parole pareva quasi che si allontanassero allora con irreparabile distacco da quella bocca e da quelle mani inerti. I tre pomidori e il ciuffo di grano si vedevano per terra, nell’arco che faceva il suo corpicino ripiegato, e pareva che ora fosse tutto il suo corpo a proteggere quelle povere cose e volesse dire in un linguaggio macabro ed assurdo: « Non ne dò a nessuno ».

I carabinieri ordinarono a quei contadini che portassero qualche cosa da coprire il cadavere, e vi stesero sopra un vecchio mantello nero.

Essi sedettero sulle pietre ad aspettare il medico e il pretore.

Un cane randagio si fermò, per poco, a guardare tra le gambe di tutti quegli uomini fermi, poi riprese la discesa col muso a terra.

Intorno, la scena della terra era la solita: col suo lavoro, i suoi frutti, gli animali col muso basso sull’erba e gli uomini pensosi ed intenti nei loro pensieri e nei loro cammini.

Il cadavere, nascosto da quella rozza lana, sembrava già scomparso sottoterra e nulla sembrava trattenerne il ricordo.

La gente diceva:

— Per tre pomidori!

— Se non lo avessero lasciato solo, si sarebbe salvato.

— Povero ragazzo, a ott’anni e mezzo!

— Forse era andato in campagna per la prima volta!

C’era andato per la prima volta. E la sua vita era bruciata in un solo guizzo.

Stupiva quella brevità violenta; quella futilità, di fronte alla morte, metteva sgomento.

Nino Savarese.

File: PDF, TESTO

Collezione: Diorama 22.07.31

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Citazione: Nino Savarese, “Tre ragazzi,” Diorama Letterario, ultimo accesso il 03 dicembre 2024, https://dioramagdp.unito.it/items/show/89.