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Titolo: Panzini grammatico

Autore: Paolo Monelli

Data: 1933-02-15

Identificatore: 1933_119

Testo: Panzini
grammatico
Quando uscì, meno di un anno fa, la Grammaire de l’Académie française, invase le vetrine di tutta Italia e andò a ruba; e fu collocata nei salotti accanto all’ultima novità di Parigi. Diàmine, si faccia vedere al volgo che del francese sappiamo e studiamo le più riposte minuzie. Poi venne il grande scandalo; la grammatica pullulava di errori; fu un ridere per tutta Europa, uscirono libelli per denunciare gli spropositi, gli accademici si affrettarono a ritirare le ultime copie della prima edizione ed a sostituirvi un’edizione riveduta e corretta, ma in tutto simile alla prima. Ora si dolgono quelle dame e gentiluomini, che non sanno se hanno in casa il testo corretto o quello errato.
C’è da scommettere che di questa grammatica di Alfredo Panzini, uscita di questi giorni (Guida alla grammatica italiana, con un prontuario delle incertezze, libretto utile per ogni persona, Firenze, Bemporad, lire 5) non faranno gran caso i sullodati signori, ed il libretto non andrà a ruba, come non lo vediamo nelle vetrine dei librai occupare il posto d’onore che quella grammatica francese tenne si lungo tempo. Gli è che non ci si può dar dell’aria comperando una grammatica italiana; si confessa tutt’al più di averne bisogno; e chi vorrebbe ammetterlo? Anche certi scrittori moderni, chi li criticasse perché mancano di grammatica passerebbe per codino e pedante.
Quasi con rassegnazione il nostro Panzini mette fuori questo libretto; e se ne scusa: « Omero scrisse l'Iliade, pare, senza grammatica. Dante quando scrisse la Divina Commedia non pensava alla grammatica, però l’aveva studiata con molta diligenza ». Etc. Anche il Cellini non sapeva di grammatica; ma quando mandò il suo libro ad un grammatico e ad un pedante, il Varchi, perché glielo emendasse, questi glielo restituì senza una correzione.
Né vale quell’esempio, che la grammatica è necessaria come è necessario allo scultore sapere la tecnica dello scalpello e della sgorbia, ed al pittore gli effetti dei colori e le regole della prospettiva: che non è tutta l’arte, ma è indispensabile rudimento dell’arte. Non vale; ché dipingere e scolpire non è necessario, si bene è necessario a tutti parlare e scrivere. Ma poi senza grammatica si può essere scrittore e vincere un premio letterario; ma se non sai di grammatica, ti bocciano agli esami di sergente o di applicato di terza classe.
Con esitazione Panzini loda così la grammatica: « La grammatica sta a guardia della lingua nazionale; ma la guardia più vera è il sentimento di dignità che ogni italiano deve avere anche nella parola ».
* * *
Panzini professore doveva essere quale in questo libretto ci si rivela; viene il rammarico di non averlo avuto in liceo, quando si distinguono i professori in quelli che divagano e in quelli che non divagano mai, quelli che raccontano storielle e piacevolezze, ed i musoni che non scherzano mai.
« E sono state anche inframezzate alcune osservazioni, modeste e semplici, più per vaghezza di dite che con pretesa di far da maestri ». Sì, e materioline, come dicono a Bologna, e facezie e leggiadrie tipografiche; sì che il libretto si legge come tante novelline. E sfogliando qua e là di primo acchito si crede che il libro sia qualcosa d’altro; una raccolta di massime; un’antologia; un libro di poesia. A pagina 32 vi cade l'occhio su queste righe:
di sé
a sé, si
sé, si
da sé.
E pensate a Palazzeschi e ad Ungaretti.
Ma ecco le massime:
« Il modo imperativo è il modo del comando, e di solito non ha la prima persona perché è più facile comandare ad altri che a se stesso ».
« Attenti a non esagerare con gli avverbi. Un bicchiere di vino dà forza, ma tre bicchieri possono fare andare per terra ».
« Una lingua agile forte sicura vale per farsi largo nel mondo. È come una spada ».
E via via. E interpretazioni piacevoli di fatti grammaticali: « L'acca è conservata in ho, hai, ha, hanno, per una specie di affettuosa memoria ».
E ritrovo un mio professore in quell’esempio dei verbi paragonati a tanti soldati, tutti con la stessa montura; i verbi passivi sono soldati che hanno cambiato vestito; e i difettivi sono soldati che hanno perduto chi un braccio chi una gamba alla guerra. Il mio professore paragonava poi la grammatica ad una bottega di rigattiere, a cui uno portava un verbo difettivo perché non gli serviva per certi casi; ed il rigattiere gli diceva:
« Ecco, per le maniche, cioè per il singolare dell’indicativo, prenda questa giacchetta, voglio dire quest’altro verbo ». Ma un giórno il professore si accorse che io stavo ritagliando degli attaccapanni da un quaderno, e credette che lo canzonassi, e mi cacciò fuori di scuola. Molti spiritosi non permettono che facciano gli spiritosi anche gli altri.
* * *
Non trovo in questa grammatica quelle regolette per tenere a mente certe irregolarità, di cui abbondavano i nostri vecchi. Io ricordo di avere imparato le forme di certi verbi latini in quei versetti modenesi:
Sumesèst al piculein
tira fóra al so curtlein;
se no l’era Fiofìs
amazèva Eoìs.
Ma sono notate con acume certe abitudini del popolo e certi fenomeni del linguaggio: « Il popolo, quando può, invece di un verbo in -ere o in -ire adopera un verbo in -are: percuotete, bastonare; cuòcere, cucinare; salire, montare; chièdere, domandare, etc. ». E vedi le osservazioni sul passato remoto, « che si può dire scomparso nell’uso popolare dell’Alta Italia, mentre nell’Italia centrale e inferiore è usato bene e con sicurezza»; ma solo dagli Appennini in giù è naturale per gli italiani parlare italiano, i cisalpini parlano sempre un linguaggio imparato a scuola; e i loro dialetti cèlti hanno caratteristiche contrastanti con quelle dell’italiano e del latino. (Così al capitolo Pronomi, all’osservazione « nei dialetti si osserva invece una cosa, cioè che i dialetti dell’Alta Italia dicono mi (me), ti (te) invece di io, tu; i dialetti dell’Italia centrale e meridionale dicono io, tu », vorremmo aggiungere che nei dialetti dell’Alta Italia si nota il fenomento classico delle antiche lingue cèlte del doppio pronome. Leggere per esempio si coniuga in modenese cosi: Me a lez, o a les, ma mai les; te t’les o t’les; quel al lez, o al lez, etc. ).
Davanti a certi arbitrii dell’uso o dei dialetti il Panzini non condanna;
se la cava con un « non si potrebbe, ma si dice ». Qua e là la sua rassegnazione è eccessiva, a nostro parere. « Chi dicesse i diporti per gli sport non sarebbe inteso ». Come no? Abbiamo letto « diporti invernali » persino in certi manifesti del turismo. Altrove elenca i nomi di fiumi femminili: « La Dora, la Stura, la Piave (ora il Piave) ». Perché « ora »? Dica tutt’al più « anche ». Perché i meridionali in guerra fecero maschile la fiumana che è femminile in Dante e nel linguaggio dei rivieraschi (essi dicono anzi la Piava), e c’è anche la canzone? E allora * dovremmo dire anche il Brenta, in odio all’uso locale e a Dante (« e come i Padovan lungo la Brenta ») perché molti scrivono il Brenta?
Più coraggio volevamo per gli in luogo di loro. Panzini non si pronuncia decisamente. « Il buon uso della lingua insegna che gli=a lui soltanto, e non a lei e a loro... Sta però il fatto che in tutti i dialetti, compreso il toscano, questo gli tiene le veci di le e loro. Non mancano esempi di buoni scrittori ». È troppo poco; viva gli per loro nel linguaggio corrente e nelle scritture disinvolte, e teniamo il loro per chiamare i pappagalli.
* * *
Questa grammatica si distingue dalle antiche per le molte parole nuove che vi si leggono, auto, bar, Leningrad, sport, film, idroplano, aeroplano, motoscafo, foto, zoo, sci, cinema, èra fascista, dòllaro, radio, F. I. A. T., R. A. C. I., U. R. S. S.; balenano i nuovi tempi nelle parolette, pare strano che anche queste debbano sottostare all’antica disciplina della grammatica (e per vero molte sfuggono alle regole). Verrà il tempo, che parleremo per formule.
Tutte e sole parole sdrucciole in questa grammatica hanno l’accento. Ma allora perché accentare ufficio, gòccia, piòggia, càccia, acàcia, etc.? Queste non sono parole sdrucciole, ma piane; quell'i, il professore Panzini lo sa bene, è un accorgimento fonetico perché noi abbiamo lo stesso segno per consonanti diverse, il c dolce e il c duro (k), il g dolce e il g duro (gh); nelle lingue come il russo ed il tedesco che hanno segni diversi per distinguere i due tipi di consonanti tali parole apparirebbero piane, con due sole vocali; bacio e baco si scriverebbero in tedesco batscho e bako; c’è un fottio di consonanti per indicare il c dolce, ma le vocali restano due. Quell’i ha indotto in errore anche il Carducci, che credeva di fare versi sdruccioli terminandoli con Aiaccio (« o solitaria casa d‘Aiaccio »), slancio, Muggia, acacie, camoscio, etc. A nostro parere si deve invece accentare l'i dopo g e dopo c (e dopo sc) solo quando non è fonetico, ma da pronunciarsi con chiara pronuncia (leggìo, bacìo, farmacìa).
Queste sono quisquilie, per la mania di cercare sempre il pelo nell’ovo; ma vorremmo proprio invogliare ad acquistare questo libretto. Insomma visto che questa diavoleria della grammatica c’è meglio saperla bene; e molti dubbi, se non tutti, in questo libretto sono risolti (forse è un po’ troppo conciso; ma l’autore vuole che esso sia solo una « guida » alla grammatica); e c’è la seconda parte, il « Prontuario delle incertezze », che è in una grammatica una novità preziosa e piacevole.
Paolo Monelli.
Alfredo Panzini.

File: PDF, TESTO

Collezione: Diorama 15.02.33

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Citazione: Paolo Monelli, “Panzini grammatico,” Diorama Letterario, ultimo accesso il 17 maggio 2024, https://dioramagdp.unito.it/items/show/929.