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Titolo: Sonetti di Shakespeare

Autore: Alberto Rossi

Data: 1933-03-08

Identificatore: 1933_153

Testo: Sonetti di Shakespeare
I « Sonetti » di Shakespeare sono una delle opere, non solo più ammirate e quasi proverbiali della letteratura di tutti i tempi, ma anche di quelle che hanno suscitato più discussioni e fatto colare più inchiostro. A cominciare dall'identità medesima del poeta, come è risaputo, tutto è stato messo in dubbio: ci si figuri, poi quale può essere stata la sorte dei punti più oscuri e controversi, e comunque di dubbiosa interpretazione. Lasciando degli innumeri tomi in tutti i formati dedicati all'argomento, ancora non passa settimana senza che i giornali pubblichino qualche lettera di un affezionato tenore che si propone e si lusinga di portare nuovi lumi. Per dire il vero, a noi la faccenda, se se ne tolgano le oscurità particolari dovute alle audacie di espressione, alle sintesi rapidissime del linguaggio shakespeariano, sembra abbastanza chiara: si vuol dire, per quello che è dell’essenziale sentimento poetico, non già delle circostanze storiche, che meno ci importano. E altrettanto chiara ci siamo curati di renderla, nello nostra versione, che mira soprattutto, da una parte alla fedeltà assoluta nel seguire il tessuto discorsivo dell'originale, dall'altra a seguire, a ricalcare per quanto possibile, questo tessuto nella suo tonalità vocale e nel suo ritmo.
VII.
A l' oriente quando la graziosa luce Leva il capo suo ardente, ogni occhio, vassallo. Dà omaggio alla sua nuova apparsa vista. Servendo con sguardi sua sacra maestà.
Quindi, come egli ascese l'erto celeste colle. Simile a forte gioventù nel suo meriggio.
Gli occhi mortali ancora ne adoran la bellezza. Osservando l'aurato suo pellegrinaggio.
Ma allora che dal sommo, con penosa cura, Qual debole vecchiaia, ei recede dal giorno.
Gli occhi, prima devoti, or già ritratti Dal suo basso cammino, altrove son rivolti.
Così, a te stesso infedele al tuo meriggio, Abbandonato muori, se non ti salvi un figlio.
CXIX.
Qual filtro bevvi io mai di pianti di Sirene Stillati entro lambicchi torbidi quanto Inferno, Dando speme al timore, e timori alla speme. Sconfìtto ancora quando vincer tenni fermo!
Quali commise tristi errori il mio cuore Nel mentre si pensava esser felice appieno:
Quali fuor di lor sede gli occhi miei vaganti Nel trasporto di tanta delirosa febbre!
Beneficio del male! Or come intendo Che il meglio fa ogni danno anche migliore.
E che distrutto amore, a rinascer, più bello Cresce, e più forte, e assai più grande.
Così, mortificato io ritorno al mio bene.
Ma nel male è per me triplo guadagno.
Traduzione di Alberto Rossi.

File: PDF, TESTO

Collezione: Diorama 08.03.33

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Citazione: Alberto Rossi, “Sonetti di Shakespeare,” Diorama Letterario, ultimo accesso il 21 novembre 2024, https://dioramagdp.unito.it/items/show/963.