Beta!
Passa al contenuto principale

Titolo: Serata alla birreria

Autore: Ugo Betti

Data: 1933-03-15

Identificatore: 1933_161

Testo: Serata alla birreria
Molti amici, molto fumo. Lusti naturalmente è capitato vicino all’ingegnere, che lo sbircia ogni tanto con un solo occhio, causa il filo di fumo della sigaretta. È un uomo corpulento, ma non troppo, che siede molto a suo agio, vestito di ottimo panno, molto ben raso, con degli occhietti porcini; senza punti vulnerabili; fatto apposta, insomma, per riuscire antipatico a Lusti. L’unica cosa: ha delle grosse vene alle tempie, nonostante le guance rosee; un principio d’arteriosclerosi, si dice. In realtà non è nemmeno un’antipatia, è questo: che ora, per esempio, siccome gli occhietti dell’ingegnere si sono per due o tre volte trattenuti sulla mano di Lusti, posata su un giornale, Lusti ha quasi voglia di tirarla indietro, la sua mano, se la guarda anche lui, gli piacerebbe, ora, di avere un’altra mano, una mano quadrata, gonfia di sangue, sicura di sé. Avrebbe desiderio di dire qualcosa di assai intelligente, di assai spregiudicato, per impressionarlo, questo ingegnere, per urtarlo, magari. Si è messo a parlare con un tono di uomo cui le cose vanno bene, accavalla le gambe con un piglio sicuro, eccolo con la sigaretta fra due dita, scuote la cenere con ostentazione. In realtà sente benissimo, con un principio di irritazione, che in ognuno di questi gesti c'è qualche cosa in eccesso, una leggerissima mancanza di naturalezza di cui gli altri no, ma l'ingegnere col suo occhietto deve avere la sensazione.
— Eh, eh — fa l’ingegnere. — Ha l’aria, davvero, di non crederci troppo, lui, a quella disinvoltura.
È incominciata la partita, e Lusti, seduto di fronte, gli osserva le mani con accenni di fossette, i polsi pelosi, giudicando il tutto, con un senso di rivincita, indizio di razza bassa. Però ci sono delle vene un po’ grosse. La camicia è fine, fresca. Gli fa stizza, a Lusti, che l’ingegnere cambi di camicia tutti i giorni, si propone di fare altrettanto dalla prossima settimana, anzi da domani. D'un tratto s’accorge che, nel parlargli, all’ingegnere, la sua faccia non riesce a rimanere tranquilla, abbozza dei mezzi sorrisi, dei cenni d’intesa, una mimica superflua insomma, come se anche la faccia di Lusti, per suo conto, cercasse con un certo orgasmo di superare un disagio. Considera, con rabbiosa umiliazione, che ciò non è altro, in sostanza, che un segno d’inferiorità, magari di servilismo. Decide che lo batterà, questo signor ingegnere; già si è messo a giocare con un'attenzione che gli fa persino dolere la nuca, pur cercando di sembrare distaccato, disattento.
— Eh, eh — fa l’ingegnere. Quando raccoglie le sue carte dopo ogni buon colpo, indugia un momentino a guardarsele da lontano nella sua manona, esagerando burlescamente la mossa da presbite e provocando intorno delle risa che svegliano nell’animo di Lusti dei silenziosi ruggiti. Deve essere diventato persino pallido, Lusti. Per tentare di dominarsi finge una gran ponderazione, abbassa le carte corrugando le ciglia, si accosta la sigaretta alle labbra con dei gesti esageratamente lenti. Giura a se stesso che vincerà. C’è molto caldo, molto fumo, le faccie del commendatore e degli altri, che ridono laggiù, sembrano lontanissime, inconsistenti. C’è solo lui, l’ingegnere, con questo collo, queste spalle, questa testa, che si staccano sullo sfondo nebbioso, massicci, minacciosi. Lo odia. È anche molto fortunato il signore. Lusti arriva a pensare che il signor ingegnere, dato l’ispessimento delle arterie, potrebbe benissimo morire ora; adesso, per esempio, col suo fante di picche in mano, lo si vedrebbe fare un inchino, battere la fronte li, sul medesimo fante. È davvero fortunato, questo animale. Quando si accorge che non c’è più speranza, che ha perso, Lusti sente per un momento un vero furore. È un momento. Si è già calmato, con uno sforzo, già sta pensando che in fin dei conti il ragioniere del compartimento, ieri l’altro, ha promesso di interessarsi per trovargli il posto, a Lusti; questa sì che è una cosa importante. Dando giù le ultime carte con indifferenza, dice che è un giocatore davvero'abile, il signore. — Eh, eh — fa l’ingegnere, alzandosi a sua volta.
All’improvviso, per caso, i loro sguardi si incontrano, restano come incollati. Dei pensieri molto rapidi si succedono nel cervello di Lusti. È sicuro che il grosso uomo ben presto volterà via i suoi occhietti, magari fingendo di doverli socchiudere causa la sigaretta. Eccolo... eccolo... No, non li volta, resiste. Benissimo. Lusti giura a se stesso che non smetterà di fissarli, quei due buchetti, qualunque cosa possa succedere. Tuttavia gli batte il cuore. Dio, ma è una cosa ridicola, ora qualcuno se ne accorgerà, l’ingegnere chiederà spiegazioni... Si figura la grossa mano a fossette alzata, un parapiglia, bicchieri rotti, una bottiglia brandita, battuta una due volte sulla testa calva, avvallata nel mezzo. Ma forse no, che diamine, forse non guarda mica lui, l'ingegnere; si sarà incantato a fissare qualche cosa dietro; una lampada, forse, di cui busti, in quegli occhi, crede di vedere il riflesso triangolare, no, oblungo... Quegli occhi: pare persino che s’avvicinino, ora; che si dilatino. La cornea sporca, da mangiatore di carne, con venuzze viola; delle pagliuzze gialle; un buchette nero, nel mezzo. Gli pare quasi di ficcarcisi dentro, in quel buchetto, d’essere succhiato in una camera viscida. Non le vede più, le pupille non vede nulla, tiene gli occhi sbarrati, se li sente rossi, indoliti. S’accorge, all’improvviso, che non fissa più l’ingegnere: un sifone; ora guarda un sifone. Sconfitto ancora. — Già — fa l’ingegnere scuotendo la cenere.
— Come va? Come va? — riprende d’un tratto Lusti un po’ pallido, mentre il suo sguardo, come per caso, si è fermato sulla mano dell’altro, sulle sue grosse vene. Dice che è bene, ogni tanto farsi guardare la pressione, è bene. Lusti ora aspetta con un batticuore piacevole. La faccia dell’ingegnere, lentamente, si trasforma; i due occhietti si abbassano verso la mano, si rialzano... Domanda a voce bassa, come lo trova d’aspetto; che infatti... Sì, un po’ d’arteriosclerosi.
* * *
L’ingegnere s’è infilato il soprabito con una mossa svogliata, s'è fermato a sentire la storiella del commendatore, ma ha l’aria di non divertirsi un gran che. « Avvelenato » pensava Lusti, con sollievo. — Messo a posto. — Il discorso, sulla piazzetta, è cambiato; con grandi tagli nell’aria parlano di piano regolatore, di sventramenti, il tutto in lotti di dieci anni, vent’anni. L’ingegnere interloquisce di rado, sembra molto più vecchio, col suo paltò male infilato. Lusti lo trova buffissimo, avrebbe voglia di dargli dei colpetti sulla pancia come in certe commedie, s’accorge con delizia che cerca di avvicinarsi, eccolo. Anche la voce è diversa, è diventato un vocino flebile, gentile.
È Lusti, ora, che fa il superiore, fermandosi ogni tanto sul marciapiede pieno di luna, buttando là dei giudizi a sciabolata, con inflessioni maschie, sprezzanti. Si sente molto bene, ora, elastico, in vena. L’altro gli dà ragione, sospira. Appena soli, allo svolto, ricomincia il discorso della pressione, dei dottori, del cuore. — Che animale! — pensa Lusti già un po' annoiato. — Lui ha paura di morire, ecco tutto. È un egoista, un cuore duro.
Che il grosso ingegnere così ben rasato debba morire sul serio, non gli dispiace, in fondo; ciò mette a posto molte cose. Però trova che sarebbe ora di cambiare argomento. Certi scacchi di luna, l’odore dei giardini, a certi svolti, gli fanno venire il desiderio di ricordarsi di qualche cosa, oppure, per esempio, di pensare a quello che farà l’anno venturo, quando avrà avuto la nomina. Invece il grosso uomo si è messo a fargli delle confidenze, a raccontargli persino certi suoi guai, in famiglia; ha anche un po’ d’affanno. Si capisce che andando così, sotto la luna, nelle strade deserte, mentre i suoi a casa dormono tranquillamente, si sente solo al mondo. Infatti dice che il terribile è questo: che soltanto quando si è malati, molto malati, solo allora si capisce che si è soli: soli. La moglie, i figli: niente; hanno sempre fretta, hanno da uscire. Soli. Lusti ha il sospetto che i due occhietti siano pieni di lacrime, e si sente a disagio, di malumore; soprattutto perché non riesce assolutamente a impietosirsi, benché si sforzi. Si sono fermati a un portone con delle borchie; poco più in là, una macchia, sul marciapiede: un gatto. Lusti si sforza di figurarsi l’ingegnere supino, rinfagottato in un frac, fra quattro ceri, un po’ di muco che esce fuori dal naso, la morte. Niente: cosa può farci Lusti? Non gliene importa niente. Il portone ha rimbombato, Lusti ora cammina solo, con sollievo.
Si curva cautamente. Un gatto, sì, ma morto. Su un fianco, quasi vuotato, fangoso, rigido, fetido, spaventoso. La morte. Con un brivido ghiaccio dentro i capelli, Lusti sta li curvo, ipnotizzato. Sicuro, la morte.
Ugo Betti.

File: PDF, TESTO

Collezione: Diorama 15.03.33

Etichette:

Citazione: Ugo Betti, “Serata alla birreria,” Diorama Letterario, ultimo accesso il 21 novembre 2024, https://dioramagdp.unito.it/items/show/971.