Cartone antico (dettagli)
Titolo: Cartone antico
Autore: Nino Savarese
Data: 1933-03-22
Identificatore: 1933_172
Testo:
Cartone antico
Il barone Branciforti possedeva i feudi di Galatola e di Risigalla, caduti in suo possesso dai suoi antenati, attraverso investiture e conferme dei Re Aragonesi, ma aveva sempre l’animo della miseria.
Anche la sua persona fisica non sembrava fatta per il suo grado e per quel contorno di cavalieri e di scudieri che gli riempivano l’arcigno palazzotto, a quei tempi terrore di tutta la baronia. Infatti dove egli si sentiva a suo agio era in campagna. Qui si sbracava tutto, se era di estate, si rinvoltava le maniche della camicia sulle braccia tozze e pelose, il petto pure di fuori, e sempre rosso e sudato, nel faccione porcino, si metteva a sedere sul sedile di pietra davanti il portone del casamento del feudo.
Chi vi fosse giunto per la prima volta, avrebbe dovuto badare dove convergevano tutti gli sguardi timorosi, gli inchini pavidi, le ossequiose parole di obbedienza, per conoscere quale, in quel cerchio di uomini in maniche di camicia e puzzolenti di sudore e di ircino allo stesso modo, era il signore e padrone, ché da altri segni non avrebbe per certo potuto riconoscerlo.
Teneva in paese « bottega lorda », non affittata ad altri, come facevano molti baroni, ma condotta direttamente per mezzo di un suo vassallo mal pagato, che era anche il suo complice in tutte le mariolerie che egli metteva in opera a danno dei forzati clienti della sua salumeria. Qui, tra la merce grassa e puzzolente, gli piaceva passare qualche ora del giorno, lodando con fare burlesco e triviale quella roba di scarto ed avariata che i suoi vassalli dovevano comprare per forza.
Ma se le sue pere di Galatola erano abbondanti in una annata, egli le faceva vendere, da qualche servaccia sfaccendata, davanti il portone del suo palazzo, per non rinunciare al guadagno che vi avrebbe fatto il rivenditore di piazza.
Era severissimo e meticoloso nell’esigere tutte le « angarie » ché l’uso e l’abuso di quei tempi concedevano ai baroni. Nessuno poteva macinar grano, se non nel suo mulino; frangere le olive, se non nel suo frantoio, né tralasciava di riscuotere alcuna delle franchigie che gli erano dovute, andando qualche volta di persona, sia che si trattasse della « sfasciatura » dal macellaio, o del canestro dal canestraio: né si vergognava infine di chiedere la terza parte del raccolto che le povere spigolatrici facevano nelle sue terre, ripetendo, in questi casi, certe massime popolari sull'economia, senza tener conto che quelle massime il popolo le applica ai pochi beni da esso acquistati col sudore della fatica, mentre lui le aggiustava alla sua incredibile avarizia.
Né vi fu mai, in tutta la contrada, un altro barone che esercitasse al par di lui, e con uguale sfrontatezza, quel diritto baronale che colpiva le povere massaie delle campagne nel loro sacrario del pollaio e che, come ognun sa, era detto il jus gallinarum.
* * *
Il Branciforti aveva quattro figli maschi: Gorello, Alduino, Joannuzio ed Urbano, tutti e quattro mal riusciti, nel fisico e nel morale, ed una sola femmina, Caterina, la quale se ne uscì di casa di appena quindici anni, come per dar prova che una bella e virtuosa ragazza non poteva restare in quella casa oltre l’età della ragione.
Nel maritarla a un bravo cavaliere, che fu poi Gran Siniscalco, il padre le diede il meno che poté, che fu un nulla a petto delle sue enormi ricchezze, giacché la dote della ragazza fu di sole ottocento once d’oro.
Così gli orfani rimasero soli in quella casaccia enorme piena di servi màl pagati; una casa che sembrava sempre al buio, e di fuori sempre in ombra. Sotto la sferza del rigore paterno, essi vi si muovevano come bestie catturate e chiuse in una gabbia. Ma per quanto non potessero amarla, pure correvano a rinchiudervisi appena ne uscivano un poco.
Che in realtà aspettavano ciascuno la morte dell’altro, per venire in possesso dei feudi e delle ricchezze accumulate, e prendere il posto del comando. Gorello aspettava la morte del padre, ormai vecchio e malato, Alduino spiava sul volto di Gorello i progressi del mal sottile che era malattia di famiglia, mentre Urbano, per necessità il più rassegnato ad aspettare, passeggiava continuamente per la casa sempre in cerca di qualche spiraglio alle finestre, dal quale potere spiare, non visto, nelle case di fronte.
Il solo che non si desse pensiero di nulla — e stava tutto il giorno davanti il portone, parlando con tutti quelli che passavano — era Joannuzio, che era mezzo scemo.
* * *
Di tanto in tanto la sorella Caterina entrava in quella casa con le sue due belle bambine per mano.
I servi si mettevano a gridare dalla contentezza e le baciavano la mano in ginocchio e toccavano le vesticciuole delle bambine, tremando di commozione. Tutta la casa pareva che si rischiarasse, come se la buona spesa portasse la luce tra quei fratelli che si invelenivano sotto il rigore del vecchio, tirannico e cocciuto.
Ma i servi scendevano fino al portone e vedevano scomparire con tristezza quel sorriso e chiudevano a malincuore il portone. Salendo sopra, trovavano già che qualcuno dei padroni ricominciava a bestemmiare e ad urlare, a proposito della più futile cosa della cucina o del servizio, quasi impazienti di ristabilire quel loro regno della noia e della tristezza. * * *
Morto il vecchio barone, i beni feudali, « ratione primogeniturae », passarono a Gorello, ed i burgensatici a tutti gli altri figli, esclusa la femmina che era stata dotata.
Gorello morì senza eredi e lasciò il patrimonio dissestato; Alduino, che gli successe, chiese al Re uno speciale assenso di vendere il feudo di Galatola, che era il più esteso. Lo ottenne a patto di pagare il diritto di « decima e tari » dovuto alla Curia, e il Re si impegnava, dal canto suo, di non molestare né il compratore né il venditore, e ciò fu consacrato nella consueta formula del giuramento reale: « Per Deum et Crucem Domini Nostri... ecc. non dover né esso né i suoi successori molestare il venditore o il compratore... ». Con questo titolo, il feudo di Galatola passò in possesso della famiglia dei principi Perrello, che ne furono i compratori.
Dopo tanti anni di abbandono, le terre di Galatola furono coltivate a dovere. I nuovi padroni piantarono anche molti di quegli olivi che si vedono ancora in questa contrada, ora divisa in una diecina di grandi poderi che, tutti insieme, ricostruiscono i primitivi confini dell’antico feudo, e rifabbricarono il casamento su quello antichissimo e cadente, che i Branciforti avevano ereditato di padre in figlio, senza mai ripararlo.
E sono della stessa epoca quei tre grandi cipressi, che si vedono anche da lontano, sull’altura di fronte la casa.
L’altro feudo di Risigalla, rimasto nella discendenza dei Branciforti fino alla morte dell’ultimo discendente legittimo, fu, in seguito, devoluto al fisco. Riconcesso poi da un altro Re Aragonese ad altra famiglia, prese a seguire tutta un’altra storia.
Nino Savarese.
Collezione: Diorama 22.03.33
Etichette: Nino Savarese
Citazione: Nino Savarese, “Cartone antico,” Diorama Letterario, ultimo accesso il 21 novembre 2024, https://dioramagdp.unito.it/items/show/982.