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Titolo: Disputa del cervello e del cuore

Autore: Mario Viscardini

Data: 1933-05-17

Identificatore: 1933_246

Testo: Disputa
del cervello e del cuore
Lucrezio, arcifanfano di Parnaso, giunto alla quarta bozza di una lettera urgente, stava per firmarne una qualsiasi, tanto per togliersela dinanzi, quando s’accorse d’una voce di protesta che si faceva strada nel combrugliume della sua perplessità. Quel nobile viscere che abita all’ultimo piano dell’architettura vertebrata, ce l’aveva con l’organo automatico che attiva il gurgito del sangue e va soggetto, come ognun sa, agli alti e bassi della pressione sentimentale.
— È tempo di finirla con questi perpetui contrasti — gridava di lassù risentito e franco. — I miei pensieri ti urtano; i tuoi battiti mi disturbano. Ho la strana impressione, da qualche tempo, di sentirti lì nel petto, come tu fossi il cuore di un altro; una bestia intrusa e fastidiosa la cui vicinanza mi opprime.
— Cos’ascolto mai! — scattò di rimando il cuore, sempre parato ad agitarsi come un cimbraccolo. — Intruso a me? Dov’è più il senso comune?
— Zitto, zitto! — continuò implacabile il cervello. — È inutile che vai ciuciando e prenda a sbofonchiare come il paiolo della polenta. Ora che ho incominciato, arriverò alla fine; poi, se te ne resta la voglia, dirai la tua. Tanto, di questo passo, non si compiccia più nulla.
Proprio quando ho bisogno di calma, e peggio se te ne preavviso, tu ti metti a correre e a strepitare come farebbe il cuore di un puledro. Viceversa, se ho da far faccia all’errore in una disputa animosa, se ti voglio caldo e generoso in sostegno della buona ragione, tu diventi un cuore di scricciolo; mi porti via quel po’ di sangue che dovrebbe andarmi alla testa e mi lasci anemico e floscio, come una ricotta che ha preso il fresco.
Ho da discorrere con gente d’importanza ed ecco, tu te ne immischi; uno scherzo innocente lo prendi come un’offesa, un’osservazione da nulla e monti in furia. Peggio ancora se mi tocca udire un complimentuccio o accettare, con autorità, una dimostrazione di stima! Le tue intemperanze, a questo riguardo, danno veramente il controstomaco. A un tratto diffondi un tal solluchero nel corpo, che tra le membra cessa ogni disciplina: la lingua parla a casaccio, gli occhi lagrimano senza ragione, le gambe dindellano e poco manca che tu ci pigli un cretto.
Sto pensando a una questione un po’ complessa, mi ci affatico, ne intravvedo appena la soluzione e subito cominci a urlare: Eureka! Eureka! Fuori l’autore! Viva qua, viva là! Un baccano d’inferno, dove finisco a smarrire il filo delle idee. All’opposto, se appena sto per concludere a rigor di logica una lunga meditazione, eccoti a opporre le tue fisime sentimentali: sarà giusto, ma mi addolora; sarà vero, ma non mi va giù! Come ci si può intendere con un essere che non ha un codice fisso per esprimersi e va tutto a impulsi? Bisognerà metterti il parocchi, come ai cavalli bizzosi.
I tuoi torti non hanno più numero. Non mi concedi un pizzico di mala fede; non mi lasci spacciare una frottola senza che il viso avvampi di vergogna. Ma allora, che vale il libero arbitrio? Perché la natura avrebbe nascosto il pensiero nel cervello, se siamo cosi sciocchi da mostrare a tutti quello che ci passa dentro?
Vedi un po’ che succede con questa lettera. Sai che si tratta di guadagnarsi l’animo di una persona, dalla cui disposizione dipende l’aprirci uno spiraglio verso la fortuna. Che c’è di male, allora, se dichiaro che dai suoi occhi scende una luce dolce come un soffio e che il pensiero le sgorga dalle labbra come un raggio di sole?
Esagerato? Ipocrita? Ma neanche per sogno. Tu stesso, ieri, tocco dalla cortesia di quel brav’uomo, eri d’accordo che dovessimo sfilar la corona e servirlo proprio nel coscetto. Oggi, che si tratta di scrivergli, tutto è cambiato. Io stendo la lettera a un modo, e, quando la rileggo, tu le dài un tono che la fa parere tutt’altra cosa. Si rifà e siamo daccapo; ora sovrabbonda e ora tien corto; lo stesso aggettivo una volta brucia e un'altra agghiaccia.
La verità è che sei un ritardatario. Non hai ancora compreso che la moderna civiltà sta creando un ambiente nel quale l’uomo più adatto è quello che ha maggior potere d’astrazione, capacità concettive, e minor ingombro di sentimenti. Stomaco e cervello si saldano in un binomio da cui il cuore sarà sempre più escluso. Questa, amico mio, è l’èra dell’uomo economico.
Appare chiaro a tutti, oramai, che una società numerosa e bene organizzata ha più bisogno di giustizia che di pietà, di comprensione che d’amore; poiché alla fine i sentimenti si esaltano sempre nei due sensi opposti; e non c’è amore che non generi odio, pietà che non partorisca ferocia, affetto che non comporti iniquità.
Ma vada ancora per la morale, di cui ti vanti, non so a qual titolo, il tutore. Però, quando si tratta di ragionare, almeno, mi si lasci tranquillo. Decidiamo una volta per sempre quali sono gli affari di tua pertinenza; e tienti pure le baie sentimentali, dove basta un’occhiatuzza melliflua per credere d’aver stipulato un contratto; goditi altresì le delizie dell'amore e anche quei dolori inutili che sono i compagni indivisibili dei passatempi oziosi. Io mi contento delle mie speculazioni, e in queste non voglio altri limiti che la coscienza di cadere in errore.
— Adagio, adagio, caro il mio cervello! — rispose il cuore, domando a fatica la sua crescente indignazione. — Tu blateri lassù come se io fossi una buccia di porro, e tu il Deus ex machina, lo spirito vitale, il principio e la fine di ogni cosa. Ma a me non mi cucchi. Lo so che i filosofi ti hanno pasciuto di codeste ubbie, e che ce ne sono di quelli che han bisogno di osservare che pensano per convincersi di esistere. Come se il loro cuore non avesse incominciato a battere prima ancora che gli occhi si aprissero alla luce! Bel profitto ne hanno cavato! Quando li ascolto ragionare, tentando di spiegar la realtà col pensiero e il pensiero con lo spirito pensante, mi par di vedere il gattino che gira su se stesso, cercando di acchiapparsi la coda.
Pochi ne conosciamo, forse, che fanno senza cervello per tutta la vita, e non possono lagnarsi della loro fortuna? Mentre taluni che ti danno soverchia importanza, in quanto a felicità, non fanno invidia ai capretti.
Riusciranno magari a dissimulare, perché io, si sa, sono segreto come un dado; diran meglio le bugie (con te non ce la potrebbe il lunario). Ma a che serve poi tutto ciò? Solo a creare quel senso di responsabilità che è alla base di ogni rimorso; e a procurarmi struggimenti e spasimi. Senza contare che i trionfi dell’inganno hanno sempre un sapore amaro, che solo gl’ingannatori conoscono; è come sentirsi lodare la parrucca.
Credi a me; quei furbi che seguono unicamente i tuoi consigli, forse non arrossiscono; ma si vergognano
lo stesso.
Mi rimproveri di capir male gli aggettivi e d’interpretar le parole piuttosto a quarti di luna che seguendo
il dizionario; ma intenderesti tu qualche cosa dei discorsi altrui senza quel tono, giusto o falso che sia? No. Saresti come un occhio che non vede i colori; prenderesti l’acqua pel vino e la zucca per il cocomero.
Ti lagni perché io strepito quando si batte all’uscio di qualcuno che mi preme in modo particolare. Ma credi che, se io stessi zitto, si andrebbe meglio? Credi che la tua famosa calma sia un fantoccio meno visibile della vergogna o del timore? E che non vinca più battaglie io con una generosa stretta di mano e una scintilla di simpatia che mando fuori per gli occhi, che tu coi tuoi raggiramenti e sillogismi?
Io sono un po’ debole, lo riconosco; ma spesso la debolezza trionfa della forza per la sua viva sensibilità agli ostacoli; è la forza dei deboli saper utilizzare le contrarietà. E se qualche volta nel giudicare prendo abbaglio, i miei errori si perdonano da cuore a cuore; dei tuoi invece i cervelli si burlano l’un l’altro, se li citano a ogni passo e se ne fanno un vanto cosi negativo, che par di vedere lo zoppo che burla lo sciancato.
Ti lagni pure che io carichi un po’ troppo le cose; però non ti accorgi che esagero anche l’importanza dei tuoi ragionamenti, la bellezza delle tue invenzioni e che il mio entusiasmo si mette al tuo servizio tutte le volte che ne hai bisogno per dar corpo ai tuoi sogni. E non sai quanto spesso io mi ritraggo stanco, dopo averti mandato inutilmente tanti vortici di sangue; perché, col gran disordine che regna in quella tua badia a spazzavento, non trovi mai quel che ci vuole al momento opportuno.
Attento a beffarti del cuore, amico mio! Coloro che credono in tal modo di non essere schiavi del desiderio proprio, si fanno servi di quello altrui. Per decidere, infatti, tu sei famoso. Le tue ragioni pesano cosi poco che, per quante se ne metta sulla bilancia del giudizio, nessun piatto va giù. E se non venissi io a dir basta, quando intraprendi le tue elucubrazioni mattutine, non saresti mai più capace di far uscire una gamba dal letto; tutta la nostra vita si ridurrebbe a un vuoto almanaccare tra coltre e materasso.
Del resto la tua ingerenza nelle cose che non ti riguardano diventa opprimente ogni giorno più. Io, che sto vicino alla gola e vedo quante cosacce le fai trangugiare contro voglia, solo perché hai Ietto, chissà dove, che fanno bene; io che odo le proteste dello stomaco al quale vorresti dettar legge; io, che risento il malessere di tutto il corpo, costretto a vivere secondo una logica che non è la sua, a seguire delle convenienze che non ha mai capite, riconosco purtroppo da dove vengono i nostri contrasti.
Non sono mica tanto facile a lasciarmi imbrogliare come la coscienza! Gli è che tu dimentichi di essere collega e vuoi farti Dominus dominantium di tutti quanti. Eri strumento, come noi, della vita comune, e vaneggi di diventarne lo scopo e l’essenza. Smetti la tua superbia e non mi sentirai più battere nel petto come se io, proprio io, fossi il cuore di un altro.
— Oh, insomma! — proruppe Lucrezio vedendo che andavano nell’un via uno e cominciando a impazientirsi. — Ora che avete gattigliato ben bene, posso sperare di concludere questa lettera?
— Fai così, — disse il cuore — lasciala dettare a me; domani la farai rileggere a quell'altro lassù e se ci troveremo d'accordo la spedirai.
— Ma la lettera è urgente!
— Non importa — disse il cervello. — Una volta tanto il cuore ha ragione. Nessuna lettera é così urgente che non si possa rimandarla all’indomani.
Mario Viscardini.

File: PDF, TESTO

Collezione: Diorama 17.05.33

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Citazione: Mario Viscardini, “Disputa del cervello e del cuore,” Diorama Letterario, ultimo accesso il 17 maggio 2024, https://dioramagdp.unito.it/items/show/1056.