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Titolo: Pane e vino

Autore: Nino Savarese

Data: 1931-08-12

Identificatore: 112

Testo: Pane e vino

D’inverno, la terra è come un seno esausto: il grano comincia appena a levare una tenera fogliolina ritorta che ancora non copre le zolle, le quali si intravedono attraverso una pelùria verde; gli alberi sono rassegnati ad aspettare con le braccia aperte, e la vite, mostrando i moncherini della potatura, e la terra nasconde ancora molte delle sementi, come se le avesse rubate dalle mani dei seminatori.

Se non c’è più grano nel cantuccio e farina nella cassa, è inutile uscire di casa, inutile girare per la campagna.

Ma quella donna col passo lento e continuo, a capo basso, pareva chiedere l’elemosina alla terra, scrutando ogni recesso, scorrendo i bordi dei torrenti, i cigli delle viottole dove il verde si mostrava più promettente. Allorché tornava, a sera, col grembiule pieno di erbe, il marito e il figlio, seduti con le braccia penzoloni tra le gambe, e la nuora e i ragazzi restavano a guardare e non dicevano nulla.

Poi finivano per mangiare quelle erbe, pur di riempire lo stomaco.

* * *

L’annata era stata scarsa e ognuno si teneva stretto quel poco di frumento che era rimasto dopo la semina e lo usciva dalla cassa, si può dire, contando i chicchi, e quei poveretti stentavano a trovare chi prestasse loro un po’ di farina.

Ma alla fine qualcuno si trovava, ché il pane non si può negare a nessuno, e siamo tutti cristiani. Chi faceva questa cerca, era di solito il vecchio, che si metteva a sedere nella casa dove arrivava e gli piaceva di parlare: si facesse una ragione, la comare o il compare chi era, che se non si aiutavano tra loro poveretti, non c’era scampo; che i padroni, i ricchi, non pensano a quelli che hanno bisogno, e quasi non ci credono. Ma il grano veniva su magnificamente, c’era la buona speranza... avevano di che pagare e restituire, con tanta bella terra seminata... ma bisognava passare l’inverno... stringere i denti ancora un poco, poi a giugno... giugno falce in pugno.

Le donne che aspettavano alla punta della viottola, se lo vedevano comparire col sacchetto pieno, rientravano in casa, per prepararsi a fare subito il pane, ché se fosse mancato quel prestito, non si sarebbe mangiato per quel giorno, e già la bambina era rimasta seduta sull’uscio e non era voluta andare anche lei a veder tornare il nonno, facendo an

cora l’imbronciata perché le avevano negato un po’ di pane. Ma di pane non ce n’era in casa nemmeno un cantuccio, e lo sapeva il babbo che zappava poco lontano e ne avrebbe voluto un pezzo anche lui, a quell’ora della merenda, ed ora levava il capo di tanto in tanto per vedere se il forno fumava.

* * *

Ma le donne facevano il pane senza allegrezza, ché sapevano quanto poco sarebbe durata quella farina avuta in prestito e, finita, stavano un giorno senza pane un’altra volta.

Poi, con quel coraggio sfacciato che viene dalla sofferenza a lungo taciuta, andavano un’altra volta da’ padrone di quel poco di terra a mezzadria. Il padrone o tornava dall’ufficio tutto imbacuccato, col parapioggia sotto il braccio, o stava a riposare, e allora bisognava aspettare. Si rabbuiava, si irritava a quelle sfacciate parole « siamo senza pane » che gli ricordavano le ristrettezze nelle quali si trovava egli stesso, e rispondeva sgarbatamente, tirando fuori il suo registro da un mucchio di cataloghi e di vecchi giornali illustrati:

« Sempre anticipi... ecco il vostro conto, questa è la vostra partita; tutto è a registro... ».

Ed era come se quei fogli aprissero, davanti agli occhi umiliati del povero contadino, un quadro di rimorsi e di paurose minacce, per tutta quella roba consumata, scomparsa, della quale non era rimasto che il ricordo su quel libraccio, con una data lontana accanto. Era lì tutto il frumento avuto, il danaro, il vino...

— Gnorsì, anche il vino, che del vino ne potreste fare a meno... del vino!

— Ma come si fa a zappare tutto il giorno, con questo freddo, senza un po’ di vino!

— Gli altri della vostra condizione zappano anche senza vino; perciò voialtri sarete sempre cosi, sempre nella miseria...

Il poveraccio replicava timidamente e gli dava dell’eccellenza, ché l’ossequio cresceva col crescere del debito, e otteneva un altro poco di frumento, « l’ultimo! » e finiva anche questo. E si era ancora ad aprile, e giugno, falce in pugno, era ancora lontano e i debiti della farina si allargavano per tutto il contorno, non piò nel vicinato, ma sempre più lontano, nelle case che appena si vedevano tra gli alberi.

Allorché gli uomini tornavano dal mulino e si scaricava la bisaccia nel mezzo della casa, si cominciava a fare i conti della farina da rendere sotto la guida delle donne che la

covavano cogli occhi come se la volessero far crescere coi sospiri e le invocazioni alla Madonna: e già qualche vicina mandava il ragazzo per sentire: « Dice la mamma se quella farina gliela potete rendere? ».

E tutto tornava come prima: la cassa vuota, il barile vuoto, un dito d’olio nell’orcio, un dito di petrolio nella bottiglia.

— Facciamo economia di pane, non fatevi prestare altro vino! — gridava la vecchia. E usciva zitta zitta e con quel passo lento e contiguo tutti la vedevano da lontano, in cima al colle in fondo alla valle.

— Queste sono di quelle buone, — diceva, tornando colle ossa rotte, e metteva l’erbe nel mezzo della casa e i suoi uomini seduti curvi sulle scranne, colle mani penzoloni tra le gambe, le guardavano senza dir nulla. Ma pensavano che qualunque cosa mangiassero, quella cameraccia era sempre triste, senza il fiasco del vino sul tavolo.

***

Nei mesi dell’estate la famigliuola si sparse per la campagna con gli uccelli e le vespe: sull’uva, sulla frutta, a spigolare tra le stoppie. Sempre insieme, a frotta, cuciti gli uni agli altri più che dall’amore, dal bisogno; con quella solidarietà e quei vincoli tristi e mortificanti che creano la miseria ed il pericolo.

Le loro carni si erano fatte arse e nere, i vestiti, tra toppa e toppa, mostravano brani di nudità sudicia: il ragazzo e la bambina coi vestitini lucidi nelle parti con le quali si soffiavano il naso, e le facce sempre sporche di polvere aggrumata di sudore e le labbra rosse che sbocciavano vive nel volto sporco di frutta.

Gli altri contadini passavano dallo stradone sulle mule cariche, nei loro vestiti di fustagno o di velluto, per recarsi con le loro donne in paese, alla festa o al mercato; questi non lasciavano un’ora quel pezzo di terra.

• Sembrava vi fossero legati; vi brancolavano sopra come i gatti che miagolano sempre, come i cani che cercano sempre; come i bovi, le pecore, gli asini, le giumente sempre a testa bassa a frugare, col muso, la terra; come i maiali che grugniscono per chiedere insaziabilmente.

— DIORAMA LETTERARIO —.

E senza mai staccare il pensiero dalla fame e dalla sete: saziandosi, con quella sospensione d’animo che dà il timore del digiuno prossimo; cogli occhi alla cassa della farina e al barile del vino; e i discorsi interminabili legati al calcolo per la settimana; tra quelle cose che finivano sempre, come se non si potessero fermare nella loro casa, come se sparissero per opera del diavolo: l’orcio dell’olio che si vuotava, il barile che era inutile agitare perché non sciacquava, la cassa della farina col coperchio rovesciato, perché vuota, e la bottiglia del petrolio sempre con un dito dal fondo!

***

La fatica era stata tanta, ma il contadino non si duole mai delle fatiche della messe quando l'annata è buona.

Pagati i debiti, nel solaio era rimasto un bel mucchio di frumento e la vecchia e la nuora lo andavano a guardare di tanto in tanto, che non credevano quasi ai loro occhi, ne! vedersi davanti quel bel mucchio d’oro: « il pane per tutta l’annata ».

Il ragazzo e la bambina intrecciavano ancora i loro trofei delle spighe più grosse e le attaccavano sopra un calendario dell’agricoltore, impiastricciato sulla parete, chi sa da quanti anni, accanto all’immagine della Madonna delle Grazie.

Ma i due uomini, quando scendeva la sera, rientrando in casa con la zappa sulle spalle, sentivano stringersi il cuore come se il mondo si chiudesse sulla loro fatica con una sconsolata continuità di condanna: guardavano tristi il pane, la pasta casalinga nelle scodelle e mangiavano svogliatamente, ché tutto sembrava come cerchiato d’ombra, senza il fiasco del vino davanti.

— Per carità — gridava la vecchia — non comprate dell’altro vino, ricordatevi quello che abbiamo penato quest’inverno... solo un poco per la messe, i poveri contadini non possono avere sempre il vino sulla tavola... ricordatevi che il vino si mangia il sudore di tutta l’annata.

Il padre e il figlio guardavano cogli occhi torvi ed umiliati.

— Il pane — si dissero sul lavoro, lontani dalle loro donne — potremo sempre procurarcelo, ma il vino nessuno ce lo darà se non lo compriamo.

E dopo pochi giorni giunse al podere uno sul carretto, che parlava con l’accento forestiero. Le donne sentirono il principio del discorso con le parole sfacciate e a voce alta: « Per quell’affare di vino... ». Poi tutti e tre scomparvero sotto gli alberi, dietro la casa.

Esse, rimaste sole, si guardarono e si misero a piangere silenziosamente sedute sull’uscio.

Come per opera del diavolo il bel mucchio d’oro del solaio si trasformò in un vino rosso e frizzante, che come una sirena chiamava i due poveri lavoratori dai campi lontani allorché tutto ad un tratto scendeva la sera, ora che cominciava ad esser freddo e il cielo pesava nero e minaccioso.

Su quel filo rosso di luce che brillava nel fiasco al riflesso della candela, sembrava giungesse in quella cameraccia triste, sperduta nel buio della campagna, l’eco della misteriosa letizia di altri mondi sconosciuti.

Dopo desinare, lo sposo si stringeva con piccole mosse di tenerezza alla moglie che gli sedeva accanto sulla sedia bassa, e la guardava con gli occhi lucidi e riconoscenti: il nonno raccontava una bella storia ai ragazzi, ed anche la vecchia, nel sentirsi tanta serena contentezza intorno, faceva più spedita la calza.

Non mancava il vino, ma il grano stava ormai per finire. C’era quel pensiero che tosto bisognava tornare a chiederne in prestito, al padrone, ai vicini, « Vergine Santa! Come l’anno passato! ».

Ma il terreno non era forse seminato da un mese? Già cominciava a scorgersi una peluria verde sulla terra. E la vecchia, poteva ormai uscire un’altra volta a cercare qualche manata d’erbe, con quel suo passo lento e continuo.

Nino Savarese.

File: PDF, TESTO

Collezione: Diorama 12.08.31

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Citazione: Nino Savarese, “Pane e vino,” Diorama Letterario, ultimo accesso il 17 maggio 2024, https://dioramagdp.unito.it/items/show/112.