Delusione (dettagli)
Titolo: Delusione
Autore: Bonaventura Tecchi
Data: 1933-11-08
Identificatore: 1933_480
Testo:
Delusione
La giornata è afosa, in piena estate. Nella grande villa, in fondo al parco, che è su una collina e dòmina la città — già residenza di signori stranieri e ora diventata un istituto di studi — l’unico refrigerio è nelle sale del pianterreno, che furono un tempo magazzino e rimesse per i cavalli dei signori e ora sono aule, piene di scaffali moderni, zeppe di libri. Son qui, in mezzo alle carte e alle opere d’inchiostro, e il telefono mi sorprende, piena la testa di cose di studio.
Possibile? È lui? E cerca proprio di me? Vent’anni fa! Ma non era andato in America, a giro pel mondo, in casa del diavolo?
Una gioia improvvisa, di cui sùbito non vedo il fondo, m’assale, mi rituffa in quell’aria di vent’anni fa. « Ha bisogno ora di me, viene a cercarmi ». E sùbito vedo lei, cosi ferma nella sua bellezza di bionda, un po’ ironica dietro le pupille che fissavano altere, vestita di nero, allora, per un lutto recente, e con quello splendore di biondo e di forme solide che proprio il nero delle vesti faceva risaltare di più. Amore dei diciotto anni! cosi disarmato e ingenuo e ardente! Il preferito fu lui, benché più anziano; sùbito lui, non senza qualche indugiante ironia per me, il poetino, il sognatore... Ah, adesso che è lui il primo a cercarmi, me la voglio godere! Non qui, tra le carte e gli appunti faticosi che pur mi sono cari, ma lassù nel salotti no elegante « della storia dell’arte », tra i volumi costosi, le poltroncine stile novecento e quella luce in sordina, quasi nascosta, che piove dall’alto... Un lieve sospetto di bancarotta, di difficoltà finanziarie l’avevo avuto da voci vaghe e contradicentisi di amici comuni... Ma era vero o no?
Me l’hanno annunciato quasi sùbito, l’ho fatto passare nel salottino, e appena sono entrato, un’ondata di cordialità così improvvisa e inaspettata mi ha assalito che, sebbene mi fossi proposto di esser gelido e ironico, non ho potuto fare a meno... Poi ho pensato, dominandomi, che un po’ di gentilezza da parte mia iniziale e apparente, non era male, e che questa anzi avrebbe aiutato il mio piano.
A un invito, l’ospite si è seduto, davanti a me. E sùbito è incominciata quella parlantina fluida, corrente, di un bel fraseggiare toscano, che un tempo incantava le ragazze. Frasi solite, non impegnative, accenni fugaci al tanto tempo che era passato, a persone e luoghi conosciuti insieme, senza nominare, naturalmente, l’unica persona che tra noi due avrebbe avuto importanza... Io gli cercavo, mentre parlava, il viso, le mani, i vestiti; e non vedevo bene. La luce novecentista che, scaturita da lampadine nascoste dietro le cornici leggere del salottino, ripiombava giù dopo aver illuminato a perpendicolo il soffitto, gli creava intorno al viso un giuoco d’ombre, me lo nascondeva. Sentivo un po' d’irritazione dentro di me, per questa impossibilità d’afferrarlo sùbito, e cercavo di spostarmi con gli occhi, con la testa... Ecco il « famoso » ciuffo dei capelli, tirati estrosamente all’indietro; ma non sono bianchi o almeno un po’ brizzolati? Ed è possibile che non siano diventati più radi? Ah, non vedo bene! No, non calvo: le belle tempie sono appena un po’ scoperte come erano una vòlta, ed ecco, dietro le lenti, quel socchiudersi leggero di uà occhio che un tempo dava a tutto il viso un’aria intelligente, mentre la bellissima bocca, tutta rasata, si scopriva a un sorriso illuminante... Perdio, a quest’uomo il tempo non è passato? Ma, e i vestiti? Come sono i vestiti, che quasi sempre son l’oroscopo sicuro dello stato d’animo, della situazione di una persona? La luce falsa dava a tutte le cose d’intorno un aspetto di lusso o almeno di decenza, e io non potevo capire bene se l’ospite fosse elegante o no. Non pareva in certi momenti che su uno dei ginocchi la stoffa, grigio-perla estiva, dei pantaloni lustrasse un po’ troppo e che intorno ai bottoni della giacca ci fosse un sospetto di cosa consunta e abilmente « ritoccata »?
— Sai, — ha detto l’ospite con aria d’importanza — ho lasciato definitivamente la musica...
— Ah, — ho detto io, volutamente distratto, e sùbito mi son ricordato che egli era, vent’anni fa, musicista, insegnante di disegno, professore di ginnastica, organizzatore di comitati e di società sportive.
— Sì, in America va molto meglio la ginnastica. Ho insegnato ginnastica per dieci anni al College (e qui un nome, con bella pronuncia inglese), ho organizzato non so quante feste sportive... La ginnastica va bene, laggiù.
America, ginnastica, entusiasmo... Qual era dunque la verità? E l’ospite era venuto soltanto per buttarmi in faccia, un’altra volta, la sua fortuna? Ma allora quel tono dimesso, accogliente, quei continui accenni lusinghevoli a me, alla mia vita, lui che un tempo era così altero dell’« altra fortuna », che significato avevano? Per quale scopo, insomma, era venuto a trovarmi quest’uomo? Per chiedermi aiuto o per... Io mi perdevo dentro le nebbie d'impressioni diverse, e l’orgoglio ferito nel passato, la vanità in pericolo adesso, mi facevano dentro un groviglio, mi davano una voglia acre d’esser crudele, di annientarlo.
Non senza una riposta ironia, ho incominciato a lodare all’ospite la posizione della villa che, lontana dalla grande città, tuttavia la domina dall’alto, inaccessibile a una folla troppo numerosa, a visite di curiosi indiscreti, e l’ho invitato a salire sulla terrazza più alta, da cui si gode una vista magnifica... L’incauto ha accettato e io, spente le luci del salottino, l’ho accompagnato su per le scale, verso la terrazza, dove un sole implacabile splende, nell’estate, da mattina a sera. Su per le scale, un po’ buie e con frequenti voltate, il professore di ginnastica mi ha preceduto, svelto e agile, quasi volesse ancora una volta sfuggirmi; ma quando siamo stati sulla terrazza, in quell’aria e in quella luce, l’ho inchiodato come una farfalla. Appoggiato a uno dei quattro muretti che fanno da ringhiera, gli abiti frusti nonostante tutta la fatica del ferro da stiro, le scarpe che avevan fatto troppo cammino, un bottone che mancava proprio sul petto della giacca, e quel gesto inutile della mano che andava e veniva senza posa dal petto al ciuffo dei capelli, come per difendersi dal mio sguardo... tutto, in un attimo, mi ha rivelato il sole di questa città, che pare fatta tutta di luce e di cose sicure.
Ah, la « scoperta » è stata cosi repentina e indubitabile che, due minuti dopo, non avrei voluto più vedere. Grande, enorme, m’era la città d’intorno: distesa tutta sotto i quattro lati della terrazza, con le sue rovine splendenti, con la sua gloria immensa nei secoli, e noi due eravamo così piccini su quella terrazza, in quel gran sole di luglio. Un senso improvviso di delusione, di stanchezza mi ha invaso... Avrei voluto non esser li, dimenticarmi dell’ora, del luogo, o almeno del motivo che mi ci aveva portato. E invece ecco la confessione, non voluta, non desiderata, dalle sue stesse parole: prima lenta e circospetta, poi fin troppo rapida ed esplicita. Dopo i dieci anni di insegnamento di ginnastica al collegio americano, egli era stato rappresentante di una ditta di marmi italiani, di Carrara. Affari d’oro, allora, per i nostri marmi, laggiù; grandi prospettive e speranze... e poi, e poi...
Sapevo tutto: la questione delle dogane, l’embargo sulle esportazioni dei marmi, il fallimento di parecchie ditte... C’era bisogno di spiegarmi tutto, d’entrare in tutti i particolari?
È avvenuto allora un equivoco doloroso tra noi due. Io debbo aver fatto, mentre egli indugiava a spiegare, un gesto d’impazienza, certo solo pel desiderio che egli non si scoprisse troppo, non si buttasse tanto giù davanti ai miei occhi, e invece egli deve aver preso quel gesto come il segno sicuro che con me non c’era nulla da fare... L’ho visto allora raddrizzarsi su all’improvviso, ergersi di nuovo davanti a me. Ha avuto un gesto buffo nel chiudersi prontamente la giacca sul petto, proprio là dove mancava il bottone, e, volta la faccia all’insù, ha mandato una risatina ironica verso il vuoto dell’aria, con la bella bocca tutta rasata... A me quei gesti, benché vi fosse qualche cosa di comico oltreché di doloroso, non sono dispiaciuti: mi pareva che, in qualche modo, salvassero lui, di fronte a me, da una situazione penosa; ma sentivo anche che si formava tra noi due un equivoco che non m’era facile sciogliere.
Son passati parecchi minuti, non sono stato capace di dirgli una parola. L’ospite si è congedato, prontamente, mentre eravamo ancora sulla terrazza, quasi con un inchino. E mi ha preceduto giù per le scale, di nuovo svelto e agile. Quando siam passati attraverso le sale, egli s’è fermato attentamente davanti a un quadro. — Che bella donna! — ha detto, e ha avuto quel socchiudersi leggero di un occhio, dietro le lenti, come se godesse la voluttà del solo vedere e insieme col gesto dell’intenditore...
Ho capito che quella era la sua vendetta.
Bonaventura Tecchi.
Collezione: Diorama 08.11.33
Etichette: Bonaventura Tecchi
Citazione: Bonaventura Tecchi, “Delusione,” Diorama Letterario, ultimo accesso il 21 novembre 2024, https://dioramagdp.unito.it/items/show/1290.