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Titolo: Paesaggi animati

Autore: Adriano Grande

Data: 1933-12-13

Identificatore: 1933_529

Testo: Paesaggi animati
Sottoportici
Era il punto più illustre della città nuova. Due file parallele di altissimi porticati, con lo slancio gotico, barocco e liberty delle colónne, e con gli ampi spazi delle arcate munite di tendoni, immettevano nel particolare e concreto misticismo, tutto moderno, della ricchezza fine a se stessa. Affreschi e mosaici e vetrate di tinte violente, corone e grappoli di lampade, grandi cristalli rivelanti opulenza di sete, di lane, di arredi e di gioielli, si rimandavano dall’una all'altra fila, attraverso l’asfalto della strada percorso da automobili lunghe e snelle, luci crude e scintillii elettrici.
Pesava su tutto ciò, più che non circolasse, un’aria artifiziata di beatitudine materiale; un’atmosfera di assoluto distacco dalla natura, che gonfiava inavvertitamente i polmoni come un’aspirazione d’etere e leggermente stordiva. Il passante che non avesse la barba rasa di fresco, o avesse le maniche del cappotto un poco lise, girava al largo, cercando le zone non illuminate sul marciapiede fuori dei portici; mentre alcuni signori dall’aspetto di diplomatici in funzione sostavano sulla soglia di un albergo, il cui ingresso era difeso da un cortinaggio di velluto scuro e pesante che, quando si rialzava, rivelava un modo di vivere felpato e inguantato.
Raccolti in circolo, essi celebravano un rito misterioso fumando con delicatezza dei grossi sigari e scambiandosi rari monosillabi e gesti misurati. Stavano, cose e persone, come se da un momento all’altro dal vestibolo dell’albergo o da uno di quei negozi lussuosi dovesse uscire una ballerinetta che, sul lustro pavimento alla veneziana, avrebbe iniziata una lenta e voluttuosa danza orientale, per poi dissolversi simile a una fiamma, o scomparire in uno dei vicoli che a quei portici facevano capo, come inghiottita dal retroscena volgare e spoglio di brio di un palcoscenico.
In tale attesa, a ogni colpo di tromba d’automobile che si udiva, tutto trasaliva quasi fosse il segnale che lo spettacolo stava per avere inizio, mentre le ombre dei vicoli sembravano maggiormente allungarsi ad intervalli uguali tra le colonne, suscitando come il ricordo di un pericolo o di un incubo malvagio, tenuto distante a forza da quella festa di mirifiche apparenze.
A un tratto, da una di quell’ombre, come dalla profondità di un sotterraneo, si alzò il suono semispento eppur sguaiato di un piano meccanico che faceva rimbalzare contro una lontana finestra l’avanzo di un ritmo sincopato da « tabarin »: e, poco dopo, evocato e mandato in esplorazione da quella musica nel paese della felicità e della bellezza compiuta, uno strano animale sbucò fuor del vicolo e gnaulando pietosamente e zoppicando e trotterellando si portò sulla soglia dell’albergo, presso gli opimi signori.
Era un gatto tignoso, spoglio di ogni eleganza e finezza della sua razza: con un occhio fuor dell’orbita e l’altro semichiuso, con la coda tremolante per un rictus da paralitico e il pelo della schiena irto ed unto.
I diplomatici lo contemplarono un poco interdetti, poi, giacché egli si avvicinava mostrando di volersi strofinare contro le gambe di un di loro, si scansarono e bofonchiando aspre parole ripararono nell’albergo. Il gatto li guardò allontanarsi con malinconia, poi si sedette sulle zampe posteriori e prese a nettarsi il muso con la lingua, fermandosi ogni poco per miagolare in modo sempre più lamentoso. E ad ogni lagno della sua voce quasi umana un avvenimento stranissimo si produceva in quell’accolta di cose troppo ricche senza che nulla veramente vi mutasse.
Crollava e si sgretolava a poco a poco la loro bellezza, rivelando un pessimo gusto e una sostanziale falsità: finché tutto non assunse l’aspetto del viso di una vecchia donna imbellettata, sciupato da una pioggia d’improvvise lagrime. Lanciando un ultimo grido, il gatto che s’era accovacciato presso una colonna, non si comprese se morto o addormentato, s’irrigidì.
I negozi avevan tutti calato le saracinesche: mezzo portone dell’albergo era stato chiuso e, spente ormai le corone e i grappoli delle luci, l’ombra dei vicoli invase le arcate, simile a un gas corrosivo e impercettibile. Per la strada, infine, non transitò che un guardiano notturno, il quale, percotendo rumorosamente il marciapiede con la sua mazza, pareva voler ricordare alla gente chiusa nelle case che la notte era l’unica realtà del momento, che esistevano i ladri.
Marina
Gli alberi beneducati del lungomare sembrano piantine d’un paesaggio ritagliato in cartoncino a colori. La grande distesa delle acque, nel luminoso crepuscolo d’autunno, tremola appena appena, come una seta cangiante agitata da qualcuno che dalle spiagge e dall’orizzonte ne tiri i lembi; alcune barche, a poca distanza dalla riva, si dondolano dolcemente per sentirsi vivere; il pennacchio di fumo bianco di un piroscafo, fermo dietro l’estrema punta dii un molo, sembra un pezzetto di carta rimasta bianca, in un grande acquarello tutto azzurro, per una distrazione della signorina che l’ha dipinto.
Mano a mano che la sera discende, i colori si assorbono in se stessi quasi rasciugando, e la luna, trasparente come una lanterna oliata, sale nel limpido cielo mentre alcuni pescatori, che non paion veri ma facenti parte di uno spettacolo teatrale, tirano le reti da scogli color rame. Le voci dei passanti risuonano come sotto una campana di vetro e le prime luci che appaiono alle finestre verso il monte ricordano i lumini accesi nelle cappellette dei crocevia di campagna.
Tutto induce a pensare che una notte scenderà, stellata e pacifica, buona per le passeggiate e le effusioni degli amanti e dei meditatori solitari; ma ad un tratto, poco prima che l’ombra s’instauri da padrona sulle cose, un gran frullo d’ali, strano preavviso, si produce presso la passeggiata, proprio all’orlo della poca sabbia che vi sottostà. È uno stormo di gabbiani: uno stormo che scivola sulle brevi spume, rotea, vi si precipita contro, rialzandosi sùbito come per rimbalzo.
Istantaneamente il mare si fa colore dell’ardesia e un forte vento si leva dalle acque investendo le imposte di tutte le case e sollevando un enorme polverone sulla strada. Alcune ragazze prese alla sprovvista ne hanno le gonne sconvolte: ma gli uomini non badano che ai propri cappelli. La passeggiata, in un attimo, si fa deserta e, mentre le barchette ritornano a terra a gran voga, il paesaggio comune e gentile si muta in uno scenario da saga nordica: nuvole nascondono la luna e ondate furiose si lanciano alla rincorsa con un crescendo impressionante contro la gettata.
Mezz’ora dopo la notte è nerissima. Una saetta la squarcia in due, rivelando l’ampiezza della burrasca e mostrando i gabbiani che volteggiano, pazzi di felicità, a fior delle schiume e degli spruzzi. Raggiungono, questi, le cime degli alberelli che sembrano presi da accessi di isterismo. E i lumi nelle case fanno pensare, adesso, alle veglie funebri.
* * *
Nel mattino che segue la grand’ira del mare, tutto è di nuovo calmo, acquarellato, generico. Il piroscafo, dietro l’estrema punta del molo, non interrompe più col suo fumo bianco l’azzurro diffuso del cielo e del mare. I gabbiani dormono. O natura eternamente nuova! Beata natura, che non hai memoria...
Adriano Grande.

File: PDF, TESTO

Collezione: Diorama 13.12.33

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Citazione: Adriano Grande, “Paesaggi animati,” Diorama Letterario, ultimo accesso il 21 novembre 2024, https://dioramagdp.unito.it/items/show/1339.