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Titolo: Paesaggi animati

Autore: Adriano Grande

Data: 1934-01-24

Identificatore: 1934_83

Testo: Paesaggi animati
Neve in Liguria
La neve, in Riviera, è uno sbaglio di natura. Non lo è allo stesso modo sul Vesuvio. Anzi, laggiù, pare quasi un luogo comune; da quando esclamative notizie, stampe e quadri ce ne tramandano il capriccioso apparire come d’una stravaganza, piacevole in quella tradizionalista esposizione di poco fumo e molto blu.
Noi di Liguria abbiamo colli e monti che dirupano, su cui la neve dovrebbe giuocare pittoricamente, trasformando in alpe ogni balza; ma non abbiamo abeti, presso il mare. Tra gli ulivi e i pini la neve mette una tristezza da giudizio finale.
Non c’è più scampo, vien da pensare, tra breve anche queste nobili piante civili e familiari seccheranno. Comincerà forse il tempo che sulle spiagge e per le erte « crose » s’arrampicheranno, ultima forma di vita, popolazioni di grossi e ruvidi granchi. Forse, anche qui, farà la sua apparizione lo Charlot dei ghiacci: il ridicolo e funereo pinguino che quando sbatte le braccia esigue sul corpo male insaccato sembra un povero che si batta i fianchi a difesa del freddo.
Nelle « stazioni di cura e turismo », attorno agli aranci, alle catalpe, agli eucalipti, alle palme e alle piante grasse, la neve ha un che di vendicativo é maligno. «Non siete spiagge affricane — sembra voler proclamare con la sua falsa innocenza. — È inutile che da secoli vi trucchiate, che a forza di ascoltare i discorsi della vostra razza che ha troppo bazzicato l’Oriente vi diate delle arie tropicali: qui è ancora, senza rimedio, settentrione ».
Solamente sulle sponde delle molte valli che offron letto a fiumi e a torrenti — Entella, Bisagno, Trebbia, Scrivia, Letimbro e via dicendo — la neve riprende in Liguria una funzione panoramica intonata all’ambiente, lega e fonde in bei quadri piante strade e case. Sono i posti dove abita, il castagno, pianta contadina per eccellenza, dove il faggio e il ginepro offrono solidi bastoni ai pastorelli. Per le nevate, i boschi han pavimenti del più soffice musco.
Fa piacere, nel disporlo ancora umido e odoroso di terra sulla carta macchiata di calce e d’inchiostro che finge le montagne del presepe, fa piacere pensare che sono andati a stanarlo, cosi vivo e verde e poco vegetale, proprio sotto la neve. Perché la neve, noi litoranei, non la possiamo accettare che come simbolo, come allusione letteraria o figurativa: macchia di calce sulla carta, fiocco di bambagia appeso al rametto di pruno che fa da albero, posato sul sughero che fa da tetto alla capanna di Betlemme.
Ma natura quando sbaglia presto ripara. E consola vedere quanto è corto il cader della neve sui sassi e la sabbia delle nostre rive. E fa pena considerare come presto l’immacolatezza superficiale delle sue distese si sciupa e si deturpa. Quando poi, sporca di carbone, di fango e di segatura, l’ammucchiano contro i pedali delle piante, più nessuno la degna di uno sguardo o di un pensiero. È stata uno scandalo: meglio non parlarne più.
Ormai il sole è tornato abitualmente primaverile; quel po’ di rigidezza che l’aria conserva ricorda l’aprile dei paesi meno fortunati di questo. Alla fine, soltanto i poeti, che han memoria per le cose minime, pensano ancora a lei. Pensano che anche l’uomo è natura: che l’una e l’altro sbagliano per fare delle esperienze.
Se gli scogli e i giardini di Liguria han visto la neve, è stato perché le candelette delle zinie, sbucando dal lenzuolo che coprì le aiuole, s’esaltassero del loro rosso inverosimile, pazzo d’allegria; perché il cupo azzurro delle acque, corniciato insolitamente di bianco, nelle calanche prendesse coscienza di quanto sia consolatore, alla gente d’oltralpe, il suo ricordo.
Zampa di mostro
Il profilo di quel promontorio allungato nel mare fermo e quieto somiglia proprio, visto di lontano, alla zampa di un favoloso animale che, stupito dell’immensità marina, timidamente assaggi con l’unghie l’estremo lembo oceanico, indeciso se non sia troppo pericolosa l’avventura di scendere in quell’acque magate.
È peccato che solo una zampa si possa vedere del mostro; poiché il suo capo, nascosto in un’immensa nuvola che occupa mezzo cielo sopra la spiaggia, dev’essere terribile come un’immagine di antica fatalità. Pure, la fantasia ha più agio nell’inventare il muto dramma che potrebbe anche svolgersi nell’aria immobile, color di mito, che avvolge la costa e si posa sul golfo.
Ci si attende di veder sorgere dal fondo dell’oceano, ruscellante di cascatene e d’alghe, un altro mostro più grande che spalanchi fauci abissali. Tra dente e dente, e nelle screpolature della lingua pietrosa si scorgeranno frantumi di navi, brandelli di vele, filamenti di sartiame, verghe d’oro e d’argento luccicanti come squame di pesci.
Non è molto, il primo dei due mostri si partì dalle foreste del nord, trascinato da una irrefrenabile voglia di spazio. Egli credeva che il mondo fosse proporzionato alla vastità che le nebbie fingevano al suo tardo pensiero; ma come varcò con pochi balzi le prime montagne il declinare lento delle colline e il breve allargarsi delle pianure lo disillusero.
Presto fu colto da noia
stanchezza per la troppo minuta evidenza della natura, conclusa nella pulitezza di cristallo del cielo e dell’aria. Gli fu lieve, bighellonando svogliatamente, superare i fiumi e i laghi; ma giunto alle spiagge nottetempo s’incontrò in un infinito non immaginario, più crudele, nel trasognato gioco di luci del chiaro di luna, di quello intravveduto tra il fogliame delle foreste e nell’ombra delle caverne.
Adesso, più d’un’alba è tornata a fugare la speranza notturna che tutto ciò non sia che un sogno: e la certezza della propria incapacità a superare la distesa verdazzurra con uno dei suoi balzi giganteschi inchioda il mostro a contemplare assorto la linea dell’orizzonte che pare vicino e si capisce lontano. Gli torna a mente, dolce musica di rimpianti, il rimbombare dei corni nelle valli natìe e lo schianto e lo scricchiolio delle valanghe da cui apprese a muoversi e a ruzzolare.
Se si distoglie da quel ricordare, ode solo il fruscio lieve che gli fa l’acqua tra gli unghioni: e quel rumore gli sembra infido più del fragore del tuono. Sperso nella limpida immensità, pur sentendo d'essere a un termine decisivo del suo peregrinare, non sa risolversi a tornare indietro. Al largo, tra le scie di due correnti, guizzano strani corpi bianchi e luminosi e la voce dell’acqua si fa a volte ansiosa, struggente come un invito d’amore.
Domani, un’improvvisa tempesta, fingendogli alle orecchie il tumultuare della pioggia fra gli abeti, dinanzi agli occhi il turbinare dei nembi alpini, lo trascinerà a lanciarsi sulla vetta dell’onda più alta. Sarà allora che dal fondo del mare sorgerà l’altro mostro più terribile. Afferrerà di colpo le zampe del povero animale del nord, gl’impedirà di tenersi a galla.
Poi lo trascinerà, gorgogliante di terrore e di soffocazione, laggiù dove giacciono, gonfi e tumefatti, tutti i mostri della favola. Lo trascinerà nel luogo da cui affiora lentamente, nelle notti serene, la misteriosa e disordinata fosforescenza del caos primigenio. Di quando la creazione si esprimeva in orribili mostri che si divoravano a vicenda e il nord e il sud non erano ancora, e per sempre, stabiliti.
Adriano Grande.

File: PDF, TESTO

Collezione: Diorama 24.01.34

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Citazione: Adriano Grande, “Paesaggi animati,” Diorama Letterario, ultimo accesso il 17 maggio 2024, https://dioramagdp.unito.it/items/show/1448.