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Titolo: Calcomanie

Autore: Camillo Sbarbaro

Data: 1934-08-01

Identificatore: 1934_322

Testo: Calcomanie
Pezzenti
Anche questa forse — quando non era che un involtino da deporre sulle ginocchia, da appoggiare al muro — la madre l’avrà pizzicottata, perché il visetto subito paonazzo e nella bocca acquosa il cencetto di lingua che trema spremessero quattrini dai passanti.
Delle sevizie, se mai, oggi si rivale. Chi scorge ancora, dietro a lei, la triste donna seduta sul gradino in atteggiamento di questua? Con la sua presenza la piccina sottrae la madre alla vista: le butta addosso, come su un oggetto importuno, lo straccetto colorato della sua allegria.
Allegria non fatta di chiasso, ma d’una silenziosa gioia ch’essa ha della pena a contenere. Prepotente va intorno, seguita dal maschietto, suo vassallo; sodo e intrepido anche lui, ma il vero diavolo è nella piccina.
Pare una ciliegia, una lazzerola. Accesa che si penserebbe al belletto se potesse emulare la scoppiante salute; alla febbre o al vino se gli occhi brillassero falso.
Non richiama che immagini di frutta.
I loro sono i giochi, fatti di nulla, dei figli dei poveri. Di che cosa non approfittano! Anche in questa via di centro, governata due volte al giorno dalla scopa municipale, scoprono ciò che fa al caso loro. Non c’è rifiuto che non festeggino.
Chi sa che pregio trovano a quella carota sfuggita al carro della spazzatura! Che meraviglie la piccina scopre nel vetro che trita!
Solo lei sa: e di stupore è colma che barcolla. A versargliene il sovrappiù s’indirizza al primo che passa; con tutta la piccola persona lo mette a parte; con gli occhi, con gli atti esclama; poi improvvisamente gli ride sulla faccia, torna precipitosa sui suoi passi. Quante ne combinano! Non tutte certo che potrebbero entrare nel Manuale dei Giuochi di Società. Ma l’infanzia è un’età, grazie a Dio, avanti la distinzione del bene e del male.
Sono loro i padroni della strada. Nessun canone consentirebbe a nessuno i diritti ch’essi si prendono. Neanche il Podestà, in caso d’urgenza, si permetterebbe la minima delle loro licenze.
Chi scende indaffarato o sovrappensiero questa via signorile, dov’essi paion messi a ricordare a chi vi abita che ricchezza non è gioia, con stupore se li trova fra i piedi; qualcuno, sedotto, si ferma; ma nessuno sa di meglio che ricompensarli d’una carezza.
È che i piccini rifiutano la pietà. Con questa propaganda di gioia che menano intorno, sono essi che regalano i passanti. Neppure il loro equipaggiamento fa nascere l’idea della miseria; le scarpe spaiate e i vestiti d’imprestito suggeriscono piuttosto quella d’una mascherata. Mettere per loro mano alla tasca appare altrettanto fuori luogo che sarebbe allungare degli spiccioli ad un uomo in cilindro. E, se un distratto prende abbaglio, la madre deve alzarsi a reclamare la moneta che già rotola, rincorsa dai due.
Tenuta così in scacco, di là la madre li guarda, impietrata di rassegnazione; a qualche prodezza dimenticandosi sino a sorridere; senza fiato per chiedere, quando un passante si ferma — smentita come si vede dal suo sangue.
Onta
Ha bello, il viso che si sottrae e spinge avanti gli occhi come la chiocciola i cornini, smentire quella provocazione.
Lei, nessuno la guarda. Si accaparrano essi l’attenzione; le usurpano la faccia. La fanciulla va per strada decapitata.
Stanno per loro conto. Neanche a lei danno confidenza. Discosti; e gelidi, certo: ché non arriva a scaldarli così timido cuore.
Le mattine come questa, poi, paion bimbi messi su. Non li tiene a bada l’avanzarli, ch’ella tenta, del capo.
I passanti l’han con lei. Se del suo viso si incuriosisce, è un’occhiata di rimbalzo: le domanda come osa. Le rinfaccia quella compagnia la vetrina dove cerca refrigerio.
Anche questi — avvistato come in volo ramo — la saluta di premura, un po’ strabico; questi che potrebbe esserle babbo.
Le mattine come questa, la fanciulla si destreggia fra gli insulti.
Incontrasse Pinotta. Ora la affronterebbe da darle una capata. Messi in mezzo i turbolenti, discoli al buio, la loro petulanza la dissimulerebbero di intesa sotto un chiacchiericcio fitto e leggero come il saltellare d’un passero.
Incontrasse Roberta. Li prenderebbe, sì può dire, su di sé. Ad essi più nessuno farebbe caso. Calma e dritta a quel modo, Roberta li saprebbe portare.
Ma, ecco, qualchecosa pel braccio la ritiene; la reca negli occhi. Le trova la faccia uno specchio, si direbbe, maneggiato da qualche finestra.
È solo l’ometto in vetrina; oh buffo; che cava dalle lenti la fronte aggrottata. leva il dito didattico a pro del callifugo.
Sventata, Doretta si ferma: guarda il fantoccio assunta.
Subito impazienti, via di lì la sollecitan essi: adulti che scapitano dove il bambino s’invischia. Di essi — e le affaticano le ascelle — più Doretta non sa, caduta in infanzia.
Di attenzione il labbro le pende. Puerile le sfugge pel naso il ridere che l’urta; con rumore, a sua insaputa; e la gente si volta.
Con sforzo si stacca.
E subito inciampa. In due si metton stavolta.
Come si coprirebbe, il sorriso che la pubblica Doretta lo rientra.
Mani addosso si sente quegli sguardi: insolenti la stimano; dispongono di lei. Impugnata così, chiamerebbe. Smarrisce le gambe, gli occhi le cercano scampo... Scappati di tutela, essi invece scartano di più bello; si impennano, a schiocco di frusta puledri.
Sprofonderebbe, Doretta. Il collo si irrigidisce, la espone. Il viso innaturale, da posa, s’imporpora d’onta. La bocca le fa mescolino...
Il pianto della buonadonna
È un bambino che portava in sé e di cui ora si sgrava, questo pianto, la buonadonna.
Non fosse sola, sarebbe un pianto senza pudore.
Messa sossopra dai singhiozzi che la incidono, all’acquazzone che gliela lava presta la faccia come a una carezza. Ulula: un ululo fermo che è il proposito dichiarato di giungere in fondo.
(Incaponito così, s’impunta per strada l’animale da tiro e scroscia, ragliando di sollievo).
Venisse meno la ragione del pianto, da esso la buonadonna non si distrarrebbe più che, pel passo del ritardatario, il virtuoso dal suo pezzo di bravura.
Più anzi scema, più nel pianto la buonadonna si asserraglia. Là entro si protesta incompresa, consuma il divorzio dai suoi, sbatte loro in faccia come una usciata la sua infelicità.
Fa pianto, da ultimo, la seggiola caduta nella visuale e che principia a spagliarsi.
Si cheterà, convertito in umore ogni appiglio di cruccio; e ancora stiracchierà gli ultimi singulti, giri di elica a secco che si arresta.
Dall’acquata esce la buonadonna come dal dovere compiuto.
Rimettendosi alle faccende, di ciò che l’ha fatta guaire essa sa quanto l’animale da tiro della pozza che si lascia dietro.
Camillo Sbarbaro.

File: PDF, TESTO

Collezione: Diorama 01.08.34

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Citazione: Camillo Sbarbaro, “Calcomanie,” Diorama Letterario, ultimo accesso il 17 maggio 2024, https://dioramagdp.unito.it/items/show/1687.