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Titolo: Libri della settimana

Autore: Non firmato (Lorenzo Gigli)

Data: 1934-08-01

Identificatore: 1934_329

Testo: Libri della settimana
Due traduzioni
Per la collana dei « Grandi scrittori stranieri » diretta da Arturo Farinelli (Utet, Torino) Giorgina Vicariti ha tradotto La pelle di zigrino di Balzac, premettendovi alcune pagine sullo scrittore e sulla sua opera che sono da considerarsi tra le buone nella sterminata bibliografia balzachiana. Perchè, a rappresentare Balzac in questa collezione letteraria che vuol diffondere tra noi il meglio della produzione mondiale di ogni tempo (i Discorsi di Budda vi figurano accanto a quelli di Bismarck, e Il libro degli schizzi di Irwing va di passo con Le pietre di Venezia di Ruskin e con l’Autobiografia di Beniamino Franklin), si sia scelta La pelle di zigrino, non è difficile intendere. È un punto di partenza, una pietra miliare della « Comèdie humaine », e vi appaiono nel loro carattere essenziale le tendenze e qualità dello scrittore. Sulla trama e nello sfondo romantico di cui Balzac si compiace, e intorno al tema filosofico che ne costituisce l'innervatura centrale, si distaccano ed emergono figure caratteristiche che non dimenticheremo più e che ci accompagneranno anche nella lettura dei grandi romanzi successivi dei quali La pelle di zigrino inaugura la serie. Giustamente la traduttrice osserva che insieme con la virtù di far vivere i suoi personaggi e di farne emergere i caratteri sui fatti e nell'ambiente, nella Pelle di zigrino si delinea la tendenza più originale di Balzac, quella di rappresentare gli uomini del suo tempo nei loro rapporti sociali e di scoprire i moventi delle loro azioni per mezzo delle analogie fra le leggi fisiche della natura e le leggi morali della società che governano in ciascun campo le correlazioni tra cause ed effetti. La traduzione della Vivanti è lodevolmente scorrevole e corretta.
In un altro volume della medesima collana Mario Puccini presenta Il poveraccio parlatore ed altre prose scelte del giornalista spagnolo Mariano José de Larra, ormai entrato nell’Olimpo dei classici. Nacque a Madrid nel 1809 e si tolse la vita a ventott’anni. La sua esistenza è, tra queste due date, movimentata da delusioni sentimentali, da un matrimonio infelice e poi da facili amori, da vagabondaggi e da sconforti. Entrò assai giovane nel giornalismo e si rivelò subito scrittore di solide doti, ricco di fantasia, psicologo sottile, ritrattista vigoroso.
Coi pseudonimi di Figaro e di Don, Ivan Perez de Munguia lasciò articoli e saggi che sono dei capolavori, benché naturalmente legati all'ora che passava. « È impossibile capire il tempo che fu suo — nota il traduttore — se non si conoscono le sue pagine migliori »; e non è esagerato affermare ch'egli per ingegno e per forza emotiva fu assai più grande di quanto codeste pagine mostrino e rivelino. Dal Larra prende il la tutto un movimento polemico; ed è questa la ragione per cui egli è un classico per gli spagnoli e, per noi, uno scrittore insieme fermo e dinamico, uomo di ieri ed uomo d’oggi, cronista di un tempo lontano e moralista eterno di una razza e di un paese. Curando la scelta delle sue prose, Mario Puccini ha aggiunto un’altra benemerenza alle molte che conta nel campo delle letterature iberiche. Nel volume sono contenuti una ventina di scintillanti articoli usciti col pseudonimo di Figaro; e un gruppo dei più interessanti della serie che il Larra pubblicò col pseudonimo del baccelliere Juan Perez de Munguia detto il Poveraccio parlatore.
Onorato di Balzac
Mariano José de Larra
I romanzi del Patriarcato
Lucio d’Ambra è della tempra di certi scrittori dell’Ottocento che si mettevano a tavolino la prima mattina dell'anno col fermo proposito di scrivere ogni giorno dieci pagine; e così, al 31 dicembre, si trovavano ad averne messe insieme metodicamente tremila. E non è da dire che, nel loro caso come nel caso del nostro, la quantità vada a scapito della qualità. Tutto ciò che Lucio d'Ambra scrive, romanzo, novella, teatro, diario, critica, reca il segno d’Una signorilità elegante, di un gusto fine e discreto, di una cultura che non è mai petulante e ingombrante.
Scorrete la sua biografia e, se vi riesce, non stupitevi che un uomo di età ancor fresca abbia scritto tanto: quattordici volumi di critica e memorie, trenta romanzi, dodici volumi di racconti e novelle, dodici di teatro. Una biblioteca. Lucio d'Ambra è una dei poligrafi più attivi e fortunati del nostro tempo, ed è giusto che il pubblico lo segua: giusto per via delle qualità autentiche di cui si discorreva poc’anzi e poi anche per l'interesse diretto dei temi che egli si sceglie e che trovano immediata rispondenza nel sentimento e nella curiosità del lettore. Chi ne vuol fare la riprova legga il più recente romanzo del D’Ambra, Angioli della fine di giornata (ed. Mondadori, Milano, 1934 - L. 10). È il secondo di quella « Trilogia del Patriarcato » che fu iniziata due anni or sono col romanzo Il guscio e il mondo l’eco del cui successo ancor dura. Nella sua scia si mette anche il romanzo nuovo; e poiché Lucio d’Ambra si rivela uomo di gusto fin dalla scelta dei titoli (ne ha trovati di assai pittoreschi: Il re le torri gli alfieri, Fantasia di mandorli in fiore, Il trampolino per le stelle, La formica sulla cupola di San Pietro, Il mercante di rose) diamogli atto di quest’ultimo che è forse il più bello di tutti: Angioli della fine di giornata. Sono gli angioli che scendono a consolare l'agonia di una donna che ha molto amato e sofferto e ha creduto nella legge della bontà. « Mi pare di sentir frusciare qualche cosa nella stanza, attorno a me, sopra di me... Come se fossero ali... Le ali dei miei angioli... ». Ultima fantasia, d'una morente? Ma è sorridendo agli angioli della fine di giornata che Benedetta si lascia prendere e illuminare da Dio. Questa Benedetta è un esempio vivo e operante della missione della donna sulla terra, ricondotta alle sue fonti umane e cristiane; non ostentata ma efficace reazione agli abusatissimi « clichés » della donna che ha disertato il focolare per tuffarsi nei vortici d'un'esistenza fallace. Prodotto anch'essa dello sconvolgimento morale del dopoguerra e della crisi. Lucio d’Ambra ha presente un tipo di donna nostro, latino, da opporre sia alla femmina alleata di Satana del romanticismo e del. decadentismo sia alla donna, standardizzata della letteratura cinematografica; e lo circonda di amore e di rispetto, lo illumina di luci poetiche, lo riconsacra sull’altare dell'ideale. Una grande idealità ispira infatti questo romanzo dalla prima all’ultima pagina e ne fa una lettura consolatrice. Vi si insegna tra l'altro che perchè la vita acquisti un suo senso infinito bisogna vivere non per sé, ma per gli altri; e allora anche la morte scompare, perchè « con una serie di vile inanellate una nell’altra non si fa una serie di sepolture isolate, ma si fa una vita che non finisce ». L'esempio di Benedetta e il suo sacrificio sono specchio di molte di codeste verità basilari che gli uomini hanno il torto di dimenticare troppo spesso. Richiamandole, il romanzo di Lucio d'Ambra obbedisce non a una regola di facile ottimismo, che sarebbe anch'esso un peccato di rettorica, ma a quella norma costante di bontà e di fede che lo scrittore s’è scelto come impresa sin dalle sue prime esperienze e dalla quale non s’è più allontanato.
Lucio d'Ambra

File: PDF, TESTO

Collezione: Diorama 01.08.34

Citazione: Non firmato (Lorenzo Gigli), “Libri della settimana,” Diorama Letterario, ultimo accesso il 17 maggio 2024, https://dioramagdp.unito.it/items/show/1694.