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Titolo: Fuochi fatui

Autore: Angelo Gatti

Data: 1934-08-08

Identificatore: 1934_331

Testo: Fuochi fatui
Da quarantacinque anni Ferdinando Nannetti faceva parte della Casa editrice Martini: c’era entrato fattorino a quindici e, ora, a sessanta, nella Casa diventata nota in Europa e fuori, era l’impiegato più vecchio e stimato. Gli scrittori, famosi o novizi, che venivano a proporre un nuovo libro, passavano prima da lui per far quattro chiacchiere e sentire le novità; e, mutati in amici, lo seguivano nei vari sgabuzzini, che il signor Ercole Martini gli assegnava, di mano in mano che l’azienda si andava ampliando.
L’ufficio di Ferdinando non era ben definito. Ogni mattina il padrone lo chiamava, e gli domandava il suo giudizio su questo o quello scrittore, su questo o quel libro; poi riscontrava e firmava le lettere che Ferdinando aveva scritte. Erano tutti e due piccini e intelligenti; ma il signor Ercole autoritario e sarcastico, e Ferdinando remissivo e malinconico; perciò, ogni volta, il colloquio finiva con un lieve sorriso di compatimento del padrone per l’impiegato; il che non impediva al primo, rimasto solo, d’impartire come ordini proprii i pareri dell’altro. Un giorno, il signor Ercole morì, e gli successe il figlio Giuseppe; ma la sorte di Ferdinando non cambiò. Il signor Giuseppe rispettava e ammirava suo padre, e continuò strettamente la tradizione; d’altra parte Ferdinando non ebbe coraggio di lamentarsi del suo stato. Così il brav’uomo riprese a vagare di sgabuzzino in isgabuzzino, senza ufficio preciso e adoperato in tutti, avaramente pagato, e, dai più giovani, Considerato oramai una specie di rudere venerando. Pure, egli chiudeva in sé l’anima della Casa: si sarebbe detto che, solamente quando, ultimo fra tutti, se ne andava col fascio dei manoscritti o dei libri stretto sotto il braccio, gli uffici, la stamperia, i magazzini, finalmente, s’addormentassero in pace.
Quella volontà, quell’audacia, quella gioia di vivere che non sentiva durante la giornata, Ferdinando le acquistava la sera, tornato alla sua casa. All’ultimo piano d’un antico palazzo, nella parte vecchia della città, abitava tre stanzette, dalle quali scopriva tutta Milano: ma una Milano bizzarra, di tetti, di torri, di cupole e di guglie. Nel sole o sotto la neve, la tumultuosa distesa di tegole sembrava pari pari, così da poterci camminare senza ingombro; sopra non c’era se non cielo e vento, pieni nell’estate di strida e di voli. Pareva agevole l’andare, da quei tetti, in ogni parte della terra, senza impedimenti; e, ogni sera, infatti, Ferdinando, con un libro in mano e il gatto Riri sulle ginocchia, presso la stufa rovente o la finestra spalancata, si metteva in cammino, per i viaggi più meravigliosi e le imprese più ardite. I temerari scopritori, gli imperterriti missionari, gli implacabili guerrieri erano i suoi eroi prediletti; si sentiva dello stesso animo, e conversava da eguale con loro. Era uno stupendo piacere quella sua trasumanazione: Ferdinando viveva tutto in quei minuti, in cui volava liberamente tra luce e spazio.
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L’imperatore Napoleone era però il suo idolo: Napoleone, il piccolo gigante impassibile, paffutello, vestito sempre a puntino col soprabito e il bicorno, intorno a cui rotava vertiginosamente la terra. Un pomeriggio di domenica, Ferdinando leggeva il « Memoriale di Sant’Elena », al capitolo sesto del secondo tomo; l’aveva già letto altre volte, ma quella, gli sembrava una rivelazione. Col sole di maggio, che cominciava a calare, il cielo e i tetti erano di fuoco; e, nell’inesausta fiamma, i tocchi delle campane si liquefacevano, mentre i voli tondi delle rondini persistevano, stampati nell’aria, anche quando gli uccelli, impazziti dalla calura, erano sfrombolati via gridando.
« Come è accaduto — diceva Napoleone al Las Cases, lodandogli l’Atlante storico — che nessuno dei vostri amici m’abbia mai informato esattamente del suo valore? Perché non me l’avete portato voi stesso? L’avrei apprezzato degnamente, e la vostra sorte sarebbe stata diversa... I re sono pur disgraziati! Nessuno è stato mai più disposto di me a ricompensare; una parola onesta dei miei collaboratori, e avrei giudicato direttamente la vostra opera: non domandavo di meglio... Per quale ragione, dunque, siete rimasto in disparte? Debbo farvi un’amara confessione, amico mio: ma un po’ d’intrigo è indispensabile con i re. La modestia, quasi sempre, è sprecata. È possibile che Clarke, Decrès, Montalivet, il signor di Montesquieu, tutti amici vostri, non m’abbiano mai accennato nulla, stimolati da voi? Nemmeno Barbier, il mio bibliotecario? Ecco un’altra confessione sgradita: qualche volta s’entra più facilmente dalla porta del cameriere che dalle altre. E la signora di S..., vostra amica anche lei, perché è stata zitta? Nei primi anni, andavamo spesso insieme in carrozza; avrebbe potuto far di voi quel che avesse voluto ».
Nella più splendida Corte del mondo, durante la gloriosissima epopea, la fortuna degli uomini, dunque, per riconoscimento dell’Imperatore medesimo, dipendeva da bravura nelle cabale, da raccomandazioni lusinghiere di donne, o da suggerimenti venali d’amici e di domestici. Con quella precisione di parola, che derivava dalla chiarezza di comprensione, l’uomo nelle cui mani avevano posato i destini di milioni d’uomini, ammetteva serenamente l’inganno, la corruzione e l’ingiustizia.
« Sì: questa era la fatalità delle cose, e una delle sventure del mio stato. Non riuscivo a liberarmi dei miei pregiudizi, o a correggere i miei errori: ma come avrei potuto? Dove trovare il tempo per un nuovo esame? Ero costretto a decidere secondo sommari o stralci; sicuro di sbagliar spesso, sapevo che non avrei potuto cambiare ». « Pure — gli rispondeva il Las Cases — Vostra Maestà parlava sempre di me con mia moglie, quand’io ero in missione. Solamente a me non parlava mai: certe volte, mi domandavo perfino se mi conoscesse o se non le fossi antipatico ». E questa era stata la risposta: « No, no. Parlavo di voi, assente, perché, per principio, discorrevo sempre con le mogli dei mariti assenti. Non vi rivolgevo la parola, presente, perché non contavate molto per me; non avevate saputo conquistare un posto nella mia memoria. Mi stavate accanto, e non ne approfittavate; negoziavate bene, e non facevate valere i vostri meriti al ritorno. Voi, per me, non avevate colore ».
Folgorante e spietato insegnamento. « Sire — continuava sommessamente il piccolo Las Cases, — il mio rammarico era tanto più profondo, quanto più la gente, vedendomi sempre accanto a Vostra Maestà, mi prediceva una grandissima fortuna. Ad ogni momento, mi dava un ufficio nuovo ed eminente: ora la Prefettura marittima di Brest, di Tolone o di Anversa, ora il Ministero dell’Interiore o della Marina; una volta fui persino precettore del Re di Roma ». « Oh, — interruppe l’Imperatore, inarcando le ciglia — c’è qualche cosa di vero in quello che avete detto. Si, si, adesso ricordo: mi proponevo proprio di mettervi accanto a mio figlio; e, ad un vostro ritorno dall’Olanda, è esatto, v’avevo destinato alla prefettura di Tolone, che equivaleva a un ministero... Aspettate: rammento sempre meglio. M’avete scritto molte volte; m’avete presentato alcuni disegni sull’Adriatico, che mi son piaciuti; rammento le vostre idee sul modo di fare la guerra per mare all’Inghilterra: volevo discuterle con voi, vi ho fatto chiamare, eravate in missione. Ripensando a tutto ciò, stupisco che siate sfuggito alla mia attenzione. Bisogna che abbiate manovrato proprio ammirevolmente, per non riuscire a nulla; che l’abbiate proprio voluto... Perché vi siete nascosto, quando dovevate mostrarvi? Perché non siete venuto da me? »
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Nella sera placida e immensa, le parole di Napoleone scendevano in Ferdinando sempre più sonore, destando echi sempre più vasti. Non era egli, Ferdinando Nannetti, un poco il Las Cases della Casa editrice Martini? Quante savie idee aveva suggerite, quanto lavoro dato, quanta ricchezza portata o aggiunta; e quanti compagni, meno degni di lui, gli erano passati avanti, mentre egli mutava di stanzetta in stanzetta! D’ora innanzi, avrebbe cambiato metodo: Napoleone gl’insegnava il dovere. Del resto, erano verità che sapeva da tanto tempo! La mattina dopo, alla chiamata del signor Giuseppe, subito avrebbe parlato: senza iattanza, ma con fermezza. « Ricorderà, signor Giuseppe, perché suo padre non l’ha mai negato, che la stampa del tale e del tal altro libro, fonte dei più lauti guadagni nostri, è dovuta a me: nessuno li voleva. E che io ho scoperti, quando erano sconosciuti, questo e quest’altro scrittore, diventati più tardi nostro vanto. Non enumero, signor Giuseppe, i malumori sedati, le gelosie composte, le liti pacificate: queste cose le ho fatte per affezione; ma non per ciò sono meno vere. Ho taciuto fino adesso, ma Napoleone mi dice, che, continuando, non farei soltanto il mio male; farei anche quello della Casa. Mi metta in condizioni di cooperar meglio alla fortuna comune, con l’ufficio e il nome cui ho diritto; mi renda giustizia ».
L’ombra era piena: densa eppur delicatissima; impalpabili insetti, bucandola, la facevano ondeggiare e frusciare come un velo. Il gatto Riri s’era addormentato. In alto, le stelle splendevan tutte. E dalla parte d’occidente, dove ancora persisteva una impercettibile striscia rosa, Ferdinando camminava con l’Imperatore e gli eroi dell’epopea, Re, Regine, Marescialli, Ministri, Scienziati, Poeti: aveva lo stesso passo loro e, secondo l’abitudine, discorreva da pari a pari.
La mattina seguente, alla solita ora, il signor Giuseppe lo fece chiamare. Un altro signore stava accanto al padrone; un bel signore alto, dall’aria autorevole, che, all’entrata, guardò fisso Ferdinando, e lo scombussolò. Quell’intruso Ferdinando non se l’aspettava.
« Il mio collaboratore Nannetti, — disse il signor Giuseppe all’altro; — il mio braccio destro. Un uomo della vecchia stampa, di quelli che non si trovano più. »
Ferdinando s’inchinò, un po’ impacciato.
« Un amico che è sempre al suo posto, e non ambisce nulla; che lavora, e non chiede continuamente la paga della sua opera ».
L’autorevole signóre, serio e bonario, persisteva a guardare Ferdinando, che diventava sempre più remissivo, e chinava sempre più le spalle miserine e la testa grigia.
« Un impiegato contento, pare impossibile; un impiegato contento del suo stato. Non è vero, Nannetti? » chiese sorridendo il signor Giuseppe, con la mano sul braccio dell’omino.
« Sì », rispose il compagno di Napoleone.
Angelo Gatti.

File: PDF, TESTO

Collezione: Diorama 08.08.34

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Citazione: Angelo Gatti, “Fuochi fatui,” Diorama Letterario, ultimo accesso il 21 novembre 2024, https://dioramagdp.unito.it/items/show/1696.