Appunti per la poesia d’un viaggio da Foggia a Venosa (dettagli)
Titolo: Appunti per la poesia d’un viaggio da Foggia a Venosa
Autore: Giuseppe Ungaretti
Data: 1934-08-22
Identificatore: 1934_347
Testo:
Appunti per la poesia d’un viaggio da Foggia a Venosa
Il Piano delle Fosse
Piazza ovale che non finisce più, d’una strana potenza. È tutta sparsa di gobbe, sconvolta, secca, accecante di polvere. Da un lato la chiude una fila di carri obliqui sulle ruote nelle profondità dei quali i fichidindia messi in mostra fanno come un mosaico coi loro colori gelati. Grandi scommesse a chi ne mangerà di più, e c’è chi arriva a mandarne giù anche cento.
Mi sono avvicinato a una delle gobbe. Dietro aveva come le altre una piccola lapide. Smossa la terra, tolte le assicelle apparse sotto, s’è aperto un pozzo e dentro s’alza un monte di grano. Questa piazza a perdita d’occhio nasconde dunque l’uno accanto all’altro un’infinità di pozzi, conserva il grano della provincia che ne produce 3. 000. 000 di quintali, e più. Altro che grotte d’Alì Babà.
Ho visto cose antiche, nessuna m’è sembrata più antica di questa, e non solo perché forse il Piano c’era prima di Foggia stessa come fa credere la curiosa analogia fra « Foggia » e « fossa », ma questo alveare sotterraneo colmo di grano mi riconduce a tempi patriarcali, quando sopraggiungeva un arcangiolo a mostrare a un uomo un incredibile crescere e moltiplicarsi di figli e di beni.
Nessun luogo avrebbe più diritto d’essere dichiarato Monumento Nazionale.
Tomba di Boemondo
Un poggio declina, salite gli scalini d’un vicolo cieco colle sue ombre che palpano la parete, col suo tonfo nell’ombra.
Vedete bene che non mancano di memorie qui a Canosa e possono tirare su anche i muri di povere case incastrandoci il segno di nobiltà di qualche lapide romana.
Tendete l’orecchio a uno scalpitio confuso che arriva sino a voi pei lastroni della Piazza, poi per quelli del Corso.
Vi mescolate allo sciamare d’echi, siete portato a entrare in Chiesa, vedete sugli elefanti la Cattedra di mille anni fa del Vescovo Orso.
Vi trovate fuori intorno alla Tomba di Boemondo.
Nel grido sordo del sole: Boemondo eroe della Ia Crociata, quei gatti, d’Antiochia dove fu colpito, che hanno un occhio verde e l’altro turchino, le figurine con damaschinature d’argento e i dischi arzigogolati delle imposte dissimili della porta di bronzo, la cupola di bella forma d’uovo sorgente dagli otto lati d’un tamburo.
Lo sgolarsi d’un galletto di primo canto.
La Via Traiana
Non vi sorprenda d’avere incontrato gli elefanti da queste parti. Ne hanno sentito parlare dai tempi d’Annibale, per lo meno. Né vi sorprenda che Canosa occupando i tre quarti d’un colle apparisca, straordinario giuoco di bussolotti, sull’incurvarsi d’una strada storica. E se non una città di fatalità omeriche e designata a fiorire prima forse che fosse nato Omero, quale poteva ambire d’essere scelta fra quelle che avrebbero legato ufficialmente Roma al mare?
E’ una collina come un’onda gonfia più che non dovrebbe consentire la calma che le si stende ai piedi. Ma la Valle dell’Ofanto dalla quale esce Canosa è tutt’altro che calma, se « calma » non fosse vocabolo capace anche di valere come uno di quegli inganni — messi in opera da Annibaie e proprio da queste parti — che convincevano il nemico a schierarsi anche contro il vento, il polverone e il sole.
Un sole torturante còme non può essercene un altro, degno d’una valle che è uno di quei quadrivi dove le razze si sono gettate senza trovare nemmeno nel sangue sparso a fiumi la fusione che le aveva spinte nella mischia e che non sarà mai trovata s’è necessario credere e vivere.
Questo è il campo dove si sono scontrati i continenti: Affrica e Roma, Bizantini e Barbari.
Questo è il quadrivio dei continenti dove da Benevento a Canne a Benevento fu vista la traiettoria, l’alba e il tramonto d’una grandissima impresa umana secondo i limiti che amaramente le fissava Dante pensando alla sconfitta di Manfredi, chiamando Federico II ultimo Cesare.
Ma se le strade maestre le hanno sempre allargate i calcoli militari, è la favola che le ha tracciate e aperte: uno se ne va, gliene capitano di tutti i colori, per caso arriva dove si ferma, e dopo di lui tre quattro sono partiti, perché chi è lontano anche se non si sa dove è andato a sbattere è come una calamita.
Questa favola o un’altra: le strade che dureranno sempre nella memoria sono queste, con precisione non si sa quando nate, alle quali da un punto o dall’altro della terra i popoli finiscono sempre per tornare, aperte prima di tutto a furia di passi che non sapevano dove andavano a finire.
Il primo è sempre stato un puro eroe, uno partito solo per partire.
I vasi dell’ipogeo
Al Museo di Bari. È fatta scorrere una tendina di velluto verde. M’hanno scoperto in quella vetrina tutta la Puglia in un miracolo d’arte popolare: il miracolo di Canosa.
In quel Museo non mancano vasi apuli d’ogni epoca. Ne ho visto uno che porta disegnato un giovane colle scarpe da funambolo: bottas de futa, mi suggerisce il fine Soprintendente alle Belle Arti Aru; su un altro, un giovane ha in testa un sombrero: ladri di bestiame, iniziatori di piantagioni, forse l’arte greca s’era messa qui a immaginare un romanzo di pianura vergine.
Ma il vasaio canosino un giorno impazzisce. Ha mandato in giro tanti mai vasi sui quali il disegno è più o meno vivo, più o meno accademico, e ora è sul punto di doversi riposare e diventa naturalmente come un bambino, e sarebbe meglio dire: diventa come uno che abbia ritrovato se stesso: la tecnica delle figure rosse su fondo nero è abbandonata, e a nausea gli è anche venuto quell’untume che hanno i soliti vasi.
I nuovi sono vasi d’una cottura incompleta, è abbandonata, come era giusto in Puglia, la cera per la calce: immersi in un bagno di calce, il bianco è lasciato alle figure coprendo il resto d’un rosa acre, e al rosa verranno presto a tenere compagnia altri colori, anch’essi dati a fresco: il rosso cupo e il nero pei capelli, l’azzurro, il vermiglio... S’è ottenuto così un effetto assetato e abbagliante, com’è questa natura.
Questa non è la sola novità: nel vaso è come penetrato un lievito, e il vaso s’è gonfiato, s’è fatto trabocchevole di ornati in rilievo: le teste dei cavalli d’una quadriga hanno sfondato la pancia d’un orciuolo, dai fianchi d’un secondo vaso fanno capolino vispi ippocampi, dalla bocca d’un terzo escono brontolando un tritone e una tritonessa, un quarto ha addirittura la forma d’una testa femminile e due testine giovanette le sbocciano lateralmente da quattro petali che formano calice.
Insomma il barocco più straordinario e più genuino si manifesta in questi vasi rinvenuti in un ipogeo di 22 secoli fa.
Sveglia a Venosa
Sono le sei di mattina. Come io sia arrivato quassù?
Tu-tu-tum-
Tum!
Si ven-De!
Carne di vitello a 4 lire e 30 il chilo
Trippa
A lire una
Altra carne buona
Al macello
Santa Maria!
Tu-tu-tum-
Tum!
È il modo di suonare la sveglia quassù: uno a passo di parata, fermandosi di scatto tamburo: tre colpi e uno, la filastrocca su riportata, avviandosi tamburo: tre colpi e uno, venti passi, tamburo:...
In Piazza c’è in marmo Orazio con un rotolo: è giusto, è nato quassù.
Incomincia quassù la Puglia o finisce la Lucania? Nessuno l’ha mai saputo, nemmeno Orazio.
Vedo delle antiche epigrafi ebraiche. Anche questo era un punto d’incrocio di strade romane. Anche qui rammentano Boemondo.
Questo, oggi, è il punto strategico dell’Acquedotto Pugliese.
Alle fonti dell’Acquedotto Pugliese
La sete.
Ho conosciuto il deserto. Da lontano, un filo improvviso d’acqua chiara e viva faceva nitrire di gioia i cavalli.
Ho conosciuto paesi di grandi fiumi.
Ho conosciuto terre più basse del mare.
Ho conosciuto l’acqua che s’insacca, l’acqua che s’ammala, l’acqua colle croste, con fiori orrendamente bianchi, l’acqua venefica, i riflessi metallici dell’acqua, la terra come una tonsura fra rari ciuffi d’erbe idropiche.
Ho conosciuto l’acqua torrenziale, l’acqua rovinosa, l’acqua che bisogna asserragliare.
Ho conosciuto l’acqua nemica.
Ho conosciuto Amsterdam dove si vive come navi ferme collo sguardo sott’acqua. L’architettura delle stesse case, prive di volume, incatramate, non trova lì consistenza se non nello specchiarsi. Sovrapponete a un’architettura quanti ornati vorrete, sarà sempre uno scheletro; ma li non è nemmeno uno scheletro: è un sogno. E difatti guardando dall’alto un tram fuggente con i suoi lumi, nel vederlo giacente nella sua crisalide capovolta sotto le velature e le trasparenze d’un’acqua putrefacente, ho conosciuto la verità di Rembrandt: sogno.
Ora andremo sino alle fonti del Sele.
Se gli Estensi volevano vedere in giro vivente la loro nostalgia, se portavano Ferrara a Tivoli, se forse le grandi acque di Versaglia sono un canto ferrarese dei Francesi, questi Italiani del'900 non hanno insegnato al mondo il modo di sbizzarrirsi coll’acqua, hanno semplicemente dato da bere a chi aveva sete.
Ma per questo non ci voleva meno fantasia che a quei tempi, e ci voleva una volontà molto più umana. Ne è nata un’opera che, come si vedrà in prossime note, sfida qualsiasi altra anche per bellezza.
Acquaforte
Rotolato dall’acqua c’è un macigno Ancora morso dalla furia Della sua nascita di fuoco.
In bilico sul baratro non pecca Se non coll’emigrare della luce Muovendo ombreggiature a casamenti Tenuti sulla frana da bastioni.
Attinto il vivere segreto, Nell’esalarsi della valle a sera Sono strazianti le sue cicatrici.
Giuseppe Ungaretti.
Collezione: Diorama 22.08.34
Etichette: Giuseppe Ungaretti
Citazione: Giuseppe Ungaretti, “Appunti per la poesia d’un viaggio da Foggia a Venosa,” Diorama Letterario, ultimo accesso il 21 novembre 2024, https://dioramagdp.unito.it/items/show/1712.