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Titolo: Una bambina vivace

Autore: Angelo Gatti

Data: 1934-09-19

Identificatore: 1934_382

Testo: Una bambina vivace
La giovane Caterina, venuta per la prima volta dalla valle di Scalve a servire in città, fu mandata un dopopranzo dalla signora Zambelli a prendere Giannina, bambinetta d’undici anni, all’uscita dalla scuola. Fine di novembre, fredda e scura: la nebbia cominciava ad addensarsi da quelle parti del Sempione, dove abitava la signora Zambelli; ma dalla via Canova alla scuola il cammino era breve e diritto.
« Nell’andare — ammoni la signora, — guarda bene la strada, per ricordarla al ritorno. A metà, c’è una casa che pare un castello; e, in quanto alla scuola, fermati dove vedrai molte signore o domestiche ad aspettare. Sta attenta, perché le disgrazie succedono presto ».
La signora Zambelli sospirò. Era una donna malinconica, che vestiva sempre di nero; aveva dovuto esser provata dalla sorte.
Caterina uscì di casa a malincuore. Non era mai stata fuori dalla sua valle, e non era intelligente. Alta e robusta per i suoi sedici anni, ragionava con lentezza e soltanto a tratti; il resto del tempo lo passava a rimuginare quel che le avevano detto, guardandosi intorno con gli occhi rotondi e aspettando pazientemente di capire; di tanto in tanto, senza motivo, sospirava forte, come le bestie nella stalla. La signora Zambelli non l’avrebbe certamente presa, se la ragazza non avesse chiesto un miserrimo salario.
Caterina passò dinanzi alla casa che pareva un castello, ne intravide un’altra cinta da un giardino, attraversò un largo viale, e cercò di stamparsi tutto questo nella memoria. Faceva sempre più freddo e oscuro; il nebbione si raffittiva, e i passanti erano radi e frettolosi. La serva sentiva crescere lo smarrimento che l’aveva presa all’uscita di casa: pure, arrivò ad un palazzo, davanti al quale molte donne stavano in crocchio, battendo le scarpe o gli zoccoli; altre entravano e uscivano dall’androne illuminato, come api dall’alveare. La ragazza chiese se quella era la scuola della signorina Zambelli.
« Questa è la scuola — rispose una servetta compiacente, mutando per eleganza le esse in zeta, — in quanto alla signorina non la conosco ».
Caterina si mise in fila con le altre, senza più aprir bocca.
A Giannina Zambelli la nuova serva non era piaciuta. Aveva rimpianto quella andata via, bella e allegra, che, spesso, di nascosto dalla mamma, la accompagnava al cinematografo. Il cinematografo era il paradiso di Giannina. Là era il mondo vero; e tutto il resto finzione. Alla ragazzina, di vivacissima fantasia, gli amici della signora Zambelli predicevano sempre che sarebbe diventata scrittrice o, almeno almeno, attrice grande; la mamma, all’augurio, sorrideva pallidamente.
Quando Giannina uscì di scuola, e scorse Caterina in disparte, brutta e ossuta, con quella sua aria spaventata e spersa, senti proprio d’odiarla. L’odio si vestì di disprezzo, nell’accorgersi che la serva, pur tenendo gli occhi spalancati, non l'aveva riconosciuta. La bimba le si era messa accanto, quasi la sfiorava, e Caterina la cercava ancora; la luce dei fanali, la calca, il vestito nuovo confondevano la serva. Giannina vide, di mano in mano che il fiotto delle scolare si assottigliava e alla disgraziata pareva di aver perduto la padroncina, il povero viso contrarsi in una smorfia di terrore, ma la poveretta non domandava nulla, serrava le mascelle; la sua disperazione era immobile.
Allora Giannina la toccò, e le disse dolcemente:
« Son qui, Caterina; non mi riconosci? ».
« O signorina », mormorò l’altra, con una voce che parve un singhiozzo di gratitudine e di gioia; e la padrona e la serva s’avviarono.
Nell’attesa, la serva s’era rigirata su se stessa; sicché, quando volle rimettersi in cammino, titubò sulla strada da prendere. Allora Giannina le disse: « Vieni con me »; e, tenendola, per mano, invece di farle attraversare il corso Sempione, glielo fece ridiscendere, verso il Parco. La nebbia, s’era tanto addensata che alle due, camminando, pareva proprio di tagliarla.
« Caterina — bisbigliò la ragazzetta, — stammi vicina. Qui succedono sempre disgrazie o delitti. Un’altra disgrazia come quella che c’è stata, e la mia mamma morrebbe ».
« O Dio — esclamò atterrita la serva; — che cosa è successo? ».
« Povera mamma. Non te l’ha raccontato? ».
La bambinetta era tutta commossa; stringeva con la manina la dura mano della serva, e trascinava quest’ultima diritto al Parco, con l’intenzione di voltare a destra, prima di giungervi, nel gran viale di circonvallazione. Sarebbe così arrivata a casa un po’ più tardi; ma avrebbe tenuto Caterina con sé per maggior tempo.
« Avevo una sorellina la mamma non ne parla mai. Ti sei accorta come è triste? Mia sorella si chiamava Rita: non Margherita, Rita; Rita di Cascia. Avessi veduto come era bella. Ah! ».
Caterina fece un salto. Dal nebbione era uscita d’improvviso un’ombra, che si avvicinò, si fermò un istante, poi riprese il cammino e sparì: Caterina, allibita, senza fiato, sospirò profondamente. Il silenzio era enorme. E, ad un tratto, qualche cosa si spalancò intorno alle due fanciulle: il viale del Sempione con le sue alte case finiva, e cominciava il Parco.
« Dio mio, signorina — disse spaventata la serva, — abbiamo sbagliato strada. Io non sono venuta da questa parte ».
« Zitta — mormorò Giannina: — non ti far sentire. È il posto dei ladri e degli assassini. Mia io lo conosco bene: ci vengo a giuocare tutti i giorni. Povera Rita. Lei, invece, ci si è perduta. Non l’abbiamo più trovata ».
« Madonna », bisbigliò Caterina, tremando per tutto il corpo. Adesso capiva perché la signora Zambelli era sempre vestita di nero.
« Caterina! », mormorò Giannina.
Un bottone di fuoco s’accostava rapidamente, a mezz’aria; ad un certo momento ballonzolò un poco dinanzi agli occhi delle due, poi anch’esso sparì: certo, un fumatore, sorpreso dell’incontro a quell’ora, s’era fermato e allontanato. La bambina e la serva riuscivano a stento a seguire i viali, senza entrare nei prati giallicci. La nebbia si rapprendeva, e cadeva a gocce.
« Non aver paura — continuò Giannina, che però cominciava a sentire nelle ossa il freddo umido della nebbia; ma la volontà di far male a Caterina la sosteneva. — Vuoi che ti racconti la storia di Rita? Una sera, la mamma aveva bisogno d’una medicina, ma la donna era da poco in casa, come te, e non sapeva dove andare. Rita disse: « Vado io ». La mamma non voleva; ma era coricata nella sua stanza, e non poteva vedere quel che succedeva. Mi ricordo Rita come adesso; aveva un cappottino col pelo e il cappellino rosso; tanti riccioli biondi; sulla porta mi mandò un bacio con la mano ».
« Signore », ripetè la serva, e si fece il segno della croce.
« Non è più tornata. Aveva cominciato a piovere, poi aveva nevicato. I carabinieri cercarono; seppero che era entrata nel Parco; certo, qui dovette perdere la strada; ma dal Parco non scoprirono mai come fosse uscita. Li conosci gli zingari, con le facce nere, che rubano i bambini? E i ladri dei ragazzi, come gli Americani? Tutti i giorni... ».
Uno squallido tocco di campana troncò la parola in bocca alla bambina, che spalancò gli occhi, come destata da un sonno. Vide un albero nero, smisuratamente alto, penderle sopra, e con i suoi rami forcuti cercare di ghermirla. Intorno, nel profondissimo vuoto, ora, tutto gemeva: la nebbia cadeva a milioni di stille sulle foglie secche, e l’eco sonora martellava lo spazio senza fine. L’uno dopo l’altro, gli alberi giganteschi e terribili uscivano per acchiappare la sperduta; un’automobile, che rotolò lontano come se trascinasse dietro tutti i carri della città, gridò: « Ora ti prendo ».
« Mamma! », Invocò nel terrore la bambina; e scoppiò in pianto.
« Da che parte si va? », domandò la serva, con una voce senza colore.
« Non so più », rispose Giannina, e si fermò.
Caterina non pensava e non capiva più nulla. Le immagini dei due giorni di Milano, che non avevano avuto ancora modo di fissarsi nel suo cervello, erano scomparse. Non ricordava né la nuova casa, né la signora Zambelli, né perché fosse lì, a quell’ora, con quella bambina. Tutte quelle persone e quelle cose, senza radici, senza sostegni, erano volate via. Rammentava invece la valle di Scalve, e il paese sotto la neve, e, nella cucina dove ardeva un focherello, la madre che filava. Nella stalla, a muro a muro, ruminava e soffiava la vacca rossa. Là faceva caldo; e là ella era piantata, là viveva sicura; tutto l’altro era sogno. Senza lagrime, tranquilla, prese per mano Giannina, che continuava a piangere, e si rimise a camminare. Andava, per il bisogno di arrivare in qualche luogo; e non si accorgeva che girava in tondo, attorno ad uno dei tanti prati del Parco.
Era sempre più freddo e oscuro. D’albero in albero, di lampione in lampione, le due ragazze guadagnavano e perdevano terreno. Di tanto in tanto, udivano una fontanella gorgogliare; poi il gorgoglio s’affievoliva, finché, compiuto il giro, lo riudivano, uguale. Non era ancor l’ora in cui la gente torna a casa per il pranzo, e, del resto, quell’angolo del Parco, fra l’arco del Sempione e l’Arena, d’inverno, è sempre poco frequentato. Giannina si sentiva sempre più stanca, e singhiozzava sempre più profondo: sembrava presa da convulsioni. Ad un certo punto, nella chiazza di luce d’un lampione, anche Caterina si fermò, si mise a sedere, e cominciò a piangere. A lei il pianto teneva il posto di pensiero. Non aveva bisogno di gridare, di chiedere aiuto; se ne stava là con le sue lagrime mute, come era sempre stata nella vita: solitaria, senza sperare in nessuno.
Due guardie di città, che facevano la ronda, giunte davanti alle ragazze, domandarono chi fossero e che cosa facessero. Giannina, subito, si alzò, serena. Con la sua limpida voce spiegò che la serva, non pratica della città, aveva voluto tornare a casa passando per il Parco, dove s’erano smarrite; e soggiunse che abitava in via Canova. Caterina udì Giannina parlare, ma non comprese; quando la padroncina e una delle guardie si mossero, le segni docilmente.
La casa della signora, Zambelli era in subbuglio. Sul pianerottolo le porte erano spalancate, e gli inquilini discutevano fra loro, o entravano a far coraggio alla signora, che aveva già raccontato alla Questura la sparizione della bimba. La portinaia, all’apparire dei tre, gettò un grido; la signora Zambelli si precipitò per le scale, e abbracciò e baciò freneticamente la figliuoletta.
« Tesoro, tesoro mio — diceva piangendo: — non ho che te al mondo ».
« Poveretta — commentavano i casigliani: — non ha avuto altra consolazione che questa bambina così intelligente, così cara; e avrebbe dovuto perderla? ».
« Come hai fatto a tardar tanto? Dove sei stata? Non sai in che angoscia mettevi la tua mamma? ».
« Caterina ha voluto ritornare dal Parco. Le ho detto che sbagliava strada. Ma è stato inutile ».
« Ma... ma... », mugolò piena di stupore e di sgomento Caterina; e il suo volto immobile non tradiva nessuna commozione. Continuava soltanto a sentirsi sola, fra tutta quella gente; sola, come poco prima nel Parco; sola, come sempre nella sua vita. I casigliani guardavano con ripugnanza quella ragazza finta e impassibile.
« Mi ha raccontato la storia di una sua sorella sperduta nei boschi — disse la bambina vivace, alzando i begli occhi ingenui sulla madre e sui vicini. — Che paura! ».
« Ve ne andrete domani, Caterina; tornerete al vostro paese. Mi dispiace di non potervi licenziare subito, perché è notte. Ma domani mattina ve ne andrete... oh, se ve ne andrete... », disse la signora Zambelli; e l’indignazione la soffocava.
Angelo Gatti.

File: PDF, TESTO

Collezione: Diorama 19.09.34

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Citazione: Angelo Gatti, “Una bambina vivace,” Diorama Letterario, ultimo accesso il 21 novembre 2024, https://dioramagdp.unito.it/items/show/1747.