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Titolo: Ovverosia

Autore: Elio Talarico

Data: 1934-09-26

Identificatore: 1934_389

Testo: Ovverosia
« Nulla è più triste, al mondo, della felicità ».
Giuseppe sorrideva: la donna gli chiuse le labbra con le palme delle mani.
« Taci; che cosa puoi dire? — Ovverosia la felicità non esiste —: tu ami troppo essere ermetico ed assurdo. Parliamo d’altro ».
Annottava lentamente, quasi con fatica: e come le ombre scendevano tetre ad adagiarsi in tutti gli angoli, paurosi pipistrelli in letargo, eran snidati fuori sulla strada i rumori monotoni e torturanti della città moderna.
« L’ora dei rimorsi... » accennò Silvia.
«... e della disperazione ». Giuseppe era proprio senza pietà verso se stesso e verso la donna che incominciava a sogguardarlo impaurita.
« Via, via, via: noi dobbiamo lasciarci al più presto ».
Abbandonarono l’angusto caffettuccio sotto i portici, pregno di aromi sfatti — anisetta e caffè —, corsero per qualche minuto in mezzo alla folla rada e noiosa.
« Dentro la stazione? ».
« Sì ».
« Come allora? ».
« Come allora ».
Il treno da Torino era in ritardo e sarebbe arrivato sul quindicesimo binario: « Signori, in carrozza », parte in questo momento Roma-Vienna: Silvia e Giuseppe sentirono come una tenera morsa che stringesse loro il cuore dolcemente, procurando dolore quasi piacevole e desiderabile.
Anche i loro pensieri incominciarono a incontrarsi.
« Hai mai avuto — domandò Giuseppe — un dolore fisico, lieve, al quale avessi finito con l’affezionarti? ».
Silvia sussultò, urtando contro la valigia d’una viaggiatrice in disordine.
« Non so, non credo... Si, hai ragione: noi finiamo con l’amare perfino i nostri tormenti ».
Al limite della tettoia un fumo nero e denso stagnava gravemente, come una grossa minaccia.
« E domani partirai... » sospirò la donna, voltando il capo dalla parte opposta.
« E domani non verrai alla stazione... » concluse l’uomo, accendendo una sigaretta.
Accesero le luci, d’improvviso; ma in fondo, proprio in fondo restava un orizzonte cilestrino lontanissimo, l’orizzonte che i treni raggiungevano dopo aver corso e sbuffato tutta la notte.
« Vieni, — mormorava Giuseppe sospirando — ti accompagno a casa».
Ma Silvia l’attirava con violenza contro il suo omero sussurrandogli fra i denti, eccitatissima:
« Senti, ascoltami, capiscimi: voglio essere tua ».
Le parole dell’uomo svanirono in un fragore di ferri e in una parabola di fischi acutissimi.
* * *
A notte alta Silvia si affacciò sul balconcino, in pigiama: era stanca di rivoltarsi nel letto senza poter dormire, nell’afa del caldo e nella smania dei pensieri cattivi: da lassù immaginava il fiume sonnacchioso e pigro, udì — a tratti — il canto esasperante dei grilli sopra gli alberi vicini, si sporse ancora un poco per osservare il fondo dell’ampia strada silenziosa.
« Bisogna davvero essere soli per sentire appena un poco di gioia ».
Qualche giorno prima, scherzando e poi dimenticandosi la burla iniziale. Silvia era sfuggita all’amante, lasciandolo in mezzo a una via del centro e provando un gusto matto ad allontanarsi da lui.
« Qui, dove vai? bambina! ».
Con il cappello sotto il braccio si era messa a correre, non sapeva per quale mèta, non le importava più niente: si ritrovò ben presto alla periferia, adesso poteva diminuire l’andatura eccessiva, guardarsi attorno, sorridere, accarezzare la sua pace invidiabile.
« Come se fossi scappata da scuola, ecco: abbasso il chiuso, evviva la libertà! ».
E Giuseppe l’attendeva sempre, con pazienza, con fiducia, con uno strano smarrimento incomprensibile e forse un poco amaro.
Trac, trac, trac.
Dei passi pesantissimi sul marciapiede di fronte: la donna si ritirò in gran fretta, restando nella penombra a osservare la scena.
Giuseppe, lui!
Veniva forse a darle l’ultimo addio, domani si va via, come hai detto? Addis-Abeba, Abissinia, come saremo lontani!
« E non sei lieto, invece, di potermi amare senza la tetra schiavitù dei sensi? ».
Giuseppe s’era fermato: zufolò in sordina: come tristi — a quell’ora —, tutte le loro più trepide canzoni!
O dolce mia Zuzù vorrei baciarti...
Altre volte la donna era corsa al richiamo, insonnolita e felice: adesso
il canto si modulava nitido, liquefacendosi il sibilo composto in suono di parole troppo note.
Darei sessanta soldi per trovarti...
Giuseppe, naturalmente, dava già segni d’impazienza: fischiò più forte, non fa niente se gli altri si svegliano, il fatto è « o dolce mia Zuzù » che lo non ne posso più e voglio i baci, tuoi che non ho piuuù.
Dopo mezz’ora circa l’uomo riprese la via del ritorno, muto e pensieroso.
* * *
« Qui, dove vai? bambina! ».
Erano insieme accanto al treno, si tenevano per mano come due teneri fanciulli, si dicevano le cose più impensate dell’universo, quando — inaspettatamente — Silvia s’è divincolata perdendosi in mezzo alla gente frettolosa della stazione.
« Qui, qui, aspettami ».
Ma Silvia è già lontana.
« Questa volta non deve trovarmi, questa volta gli devo sgusciare di mano ».
Il venditore di giornali le attraversò la strada con il suo carrello ingombro di libri e di riviste.
« Silvia, Silvia ».
Attorno sempre il solito vociare, da per tutto un’aria spaesata di viaggio e d’abbandono.
« Cuscini, cuscini ».
« Birra fresca ».
« Largo, per cortesia, largo ».
La donna si ritrovò all’altro capo del convoglio e si volse indietro timorosa, come se fosse inseguita dall’orco cattivo.
Non c’è più: ecco, mi allontanò, improvvisamente: e lui parte e gli resta un poco la dolcezza delle ultime parole dette e ascoltate. Ma non posso restare accanto a lui: non posso vederlo andar via, non posso davvero fingere una felicità, vicino al mio amore, che soltanto lontano dal mio amore è possibile nasca. Non avrà più la sensazione del distacco, né del viaggio, né delle lagrime mancate; ma intanto bisogna correre, bisogna fare presto, bisogna scomparire.
« In carrozza, signori ». (Alla Gare du Nord, a Parigi, pensa la donna, si udiva sempre il monotono: « En voiture, messieurs, dames »).
« Carrozza, carrozza, carrozza ».
Urtò contro qualcuno.
« Silvia, sei tu?! Cattiva, lasciarmi proprio ora! ».
Giuseppe la strinse a sé, vorticosamente, rabbiosamente: le dette un bacio scappando, saltò sul predellino del treno che si muoveva in quell’attimo.
« Addio, addio, addio ».
Silvia restò come una povera umana bambola disarticolata, senza voce, - senza pensieri, senza neanche sguardo: le risuonava nella testa una frase prepotente: « Idiota, non ha saputo essere felice! » e immaginò Giuseppe accasciato in un angolo del treno che piangeva, piangeva disperatamente sopra il gioco incompiuto.
Elio Talarico.

File: PDF, TESTO

Collezione: Diorama 26.09.34

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Citazione: Elio Talarico, “Ovverosia,” Diorama Letterario, ultimo accesso il 17 maggio 2024, https://dioramagdp.unito.it/items/show/1754.