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Titolo: La chiostra

Autore: Riccardo Marchi

Data: 1934-10-17

Identificatore: 1934_422

Testo: La chiostra
La chiostra è il secondo volto della casa, senza ipocrisie di finestre laccate né di intonachi ravviati, un volto sporco e aggrinzito perché nessun estraneo lo vede: qua lo stillicidio dell’acqua piovana ha creato una larga chiazza umida con ombre verdastre, più avanti sgocciola qualcosa dalle intricate vene dei tubi. Si può gettare un’immondezza dalla finestra e un esercito di gatti se la contende. Quando il vento scompiglia la pattumiera, i detriti sollevati in aria battono alle finestre con un’acerba volontà di rientrare nelle case; turbinano e ricadono a spirale. Insomma tutti sapete com’è fatta la chiostra di un grande stabile a quattro piani abitato da inquilini del medio ceto, tutta gente rispettabilissima.
A me è accaduto questa sera di sporgervi il capo e di provarne sgomento. Le finestre riverberavano fasci di luce opaca in questo pozzo senza lasciarne scorgere nitidamente il fondo; ogni tanto dagli squarci delle nubi nel sovrastante tappeto di cielo pioveva la fredda luce della luna; gorgogliava qualcosa dalle condutture; imploravano i gatti; giungeva la triste musica del pianto di qualche bambino ritmata dal rumore della sedia smossa su cui era cullato, pianto insistente, noioso anche se nessuna sofferenza lo provoca, prima che si perda nella beatitudine del sonno.
Io la casa la ricostruivo a rovescio, come una composizione di cartone da iniziarsi appunto dall’interno, dalle parti non appariscenti e non colorate. Qui le pareti meno nobili, le cucine, i bassi servizi, i ripostigli, gli ambienti negletti dove non tutti i giorni passa la granata e la dirazzola; più avanti i corridoi e le stanze di passaggio e su su finalmente, — pome in una ben congegnata gerarchia — dall’ammattonato greggio ai pavimenti di marmo o di legno, il fasto delle sale da pranzo e delle camere linde che danno su panorami vasti, su fughe di altre case elevate fra intrichi di strade e di canali e chiuse, in fondo, dalla frangia verde del mare.
La chiostra appariva, per contrasto, come un mondo inesplorato che può stupire l’uomo maturo che l’ha a due passi e tuttavia non vi ha posto da anni lo sguardo e il cui stupore fanciullesco farebbe ridere i più; il luogo di una vita occulta e costretta in limiti angusti esistente quasi per bilanciare il bello e l’aria libera che si gode sul davanti: anche la casa, come gli uomini, sconta il peccato originario per un comandamento che viene dall’alto.
Poco a poco, estinto il pianto, il mio orecchio si assuefaceva a quel mondo chiuso e cominciava a percepire le voci degli inquilini. Anche la loro vita si poteva ricostruire a rovescio, dalle parti meno visibili, risalendo dalla rivelazione delle piccole e grandi ipocrisie alla apparente e qualche volta fastosa dignità di quando mettono il naso fuori dell’uscio.
Insomma, signori coinquilini che appena mi degnate di uno sguardo quando v’incontro per le scale, mi prenderebbe stasera l’uzzolo di farvi in qualche modo felici. È così buffo l’istinto della filantropia che potrei perfino rallietare tutta questa gente malcontenta e mediocre con qualche storiella, come quella della signora benefica che viene ad ogni fine di stagione a chiedermi gli spogli degli abiti da svecchiare e non indovina come trasalisco ogni volta che m’imbatto per istrada nei beneficati — ricchi decaduti da poco — che indossano qualche abito mio.
Ma questi muri nerastri della chiostra potrebbero essere in qualche modo trasformati fino a render più rosei i pensieri miei ed i vostri, signori inquilini. Si potrebbe, ad esempio, farvi crescere su un poco di verde, qualche convolvolo, dell’edera, una vite americana che prenda color oro a primavera. L’uccelliera le zitelle potrebbero portarla qua e, sporgendosi a queste finestre durante le mattinate di sole, nutrire i canarini di panico e savoiardi, arrotar loro il becco sull’osso di seppia, ascoltarli cantare e sospirare, nel canto, i volti dei mariti perduti e i miraggi degli amori solitari.
Eppure un giorno, prima dell’acqua potabile, la chiostra era un volto meno chiuso ed ipocrita dello stabile: tutto un allegro cigolare di carrucole, allora, un chiacchierio di funi, un tonfare di secchie entro i pozzi che sono stati chiusi. L’acqua sgocciolava, veniva giù a scrosci quando la mano che afferrava il recipiente non era troppo ferma, spesso inondava i parapetti annacquando la maldicenza pettegola delle comari. Qualche volta, noi ragazzi ci si divertiva a gettare una pasticca di blu oltremare nel recipiente dell’inquilino del piano di sopra, sicché questi, accecato dal riverbero solare, pensasse che il cielo si fosse trasfuso e stemprato dentro la spera rotonda del pozzo: nel posto stesso dove è stato costruito una specie di pulpito con un bello strato di cemento sopra. I gatti, cacciati dalle case o fuggiti senza potervi rientrare, vi si protendono con gli occhi accesi sperando di poter lucrare qualcosa dai loro miagolii. E nessuno li ascolta, poverini.
Fu proprio qui che molti anni or sono — ero appena poco più che giovinetto — calai la prima calda ed ingenua dichiarazione diretta alla bionda formosa del primo piano — più vecchia di me di almeno dieci anni — che non ardivo guardare tanto i suoi occhi celesti mi sconvolgevano l’anima? Scendeva timidamente la secchia con la bianca busta impersonale dentro, scivolava in silenzio la fune giù per la carrucola ben unta e quasi dubitavo che la bella non potesse capire il segnale e che la mia timidezza facesse precipitare tutto — lettera, secchia e illusioni — dentro il pozzo profondo.
Invece una piccola mano si era sporta, ma non dal primo bensì dal secondo piano. Una fanciulla striminzita e insignificante si sarebbe presa per sé l’effusione amorosa. Meglio così, pensavo infine, costei non si befferà di me! Eppure per quanti mesi dovetti con altre lettere continuare con l’infelice la commedia. Per pietà, naturalmente, finché la brutta tosse con la quale l’illusa riempiva la chiostra se la sarebbe portata via, forse col mio nome sulle labbra. Ed ora da quella stessa finestra il cavaliere del secondo piano sporge un volto appagato che traspira felicità e la emette con le ampie boccate di fumo del suo sigaro.
Basta, basta ora, con questa maledetta chiostra. Non mi ci affaccerò mai più. Come farei a conservare l’illusione di trovarmi fra gente per bene quando vi rivedrò tutti, signori inquilini, con volti melliflui e virtuosi, al cospetto del mondo?
Ma i gatti continuavano a implorare. Le loro voci emergenti dalla sarabanda dei rissanti, dal gorgoglio delle acque sporche che corrono nelle tubature, avevano ancora il potere di toccare il mio cuore indurito. Allora ho afferrato quanto era rimasto della nostra cena, non esclusa qualche prelibata leccornia che poteva servire per la colazione di domani, ed ho gettato tutto a quella turba famelica. Ho udito qualche miagolio più forte intorno alla preda, un ronfare rissoso; non ho più scorto, nel fondo, gli occhi di brace. È succeduto il pacato silenzio di quella specie di giungla soddisfatta i cui membri si leccavano i baffi e si stiracchiavano felici alle fredde luci della luna
Riccardo Marchi.

File: PDF, TESTO

Collezione: Diorama 17.10.34

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Citazione: Riccardo Marchi, “La chiostra,” Diorama Letterario, ultimo accesso il 21 novembre 2024, https://dioramagdp.unito.it/items/show/1787.