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Titolo: Caccia al topo

Autore: Mario Viscardini

Data: 1934-11-07

Identificatore: 1934_455

Testo: Caccia al topo
Nell’età di cinque anni io trovavo perfettamente assurdo che ci fossero al mondo delle persone che hanno paura dei topi. Me li vedevo sempre scappare davanti come tante blatte, e mi facevano piuttosto schifo con quella loro tremenda paura, quasi che avessero cattiva coscienza.
Non c’era verso di persuaderli ad aspettare un momentino solo, per rendersi conto che non ero un gatto, e che non avevo intenzione alcuna di causar loro del danno. M’ero provato a levarne uno di trappola; piccolino, che faceva il morto, o quasi morto era dallo spavento, e se ne stava lì, chiotto chiotto, con la codina lunga che spenzolava fuori delle sbarrette di ferro, gli occhiettini chiusi e il cuore palpitante.
La mia intenzione era di addomesticarlo, di farne un topo civile e ben educato, che venisse a prendere il pezzetto di polenta dalle mie mani e non pensasse più a vivere di ruberie; ma sì! Appena mollato, se ne scappò come il fulmine, da vero selvaggio incorreggibile.
D'allora in poi, quanti ne cascarono in trappola, li abbandonai al loro destinò, nelle mani grosse della Celeste, la domestica, che li portava al tino del bucato, pieno di liscivia, per annegarveli. Meno male che morivano puliti! Ma era poi giusto?
La Celeste non capiva ragioni; per lei si trattava di ladri colti sul fatto. Ma se mettevano lì il formaggio, o il lardo, apposta per indurli in tentazione! Bah! Se è vero che tutte le ruote della vita sono indispensabili all’andamento di questo mondo, che brutta sorte averci la parte del cappone, o quella del topo in trappola!
Da ragazzo io non finivo mai di ringraziare Iddio per avermi fatto nascere uomo e dato speranza di diventare un gigante (giacché devo dire che i miei parenti sorpassavano tutti la statura normale, e che io stesso avvertivo non so quale incontenibile spinta interiore a crescere presto e ad emergere sugli altri; né potevo incontrare un coetaneo senza mettermi al suo fianco, drizzando bene le gambe, il collo e le spalle, e chiedere ai presenti: chi è più alto? ).
* * *
Accanto alla pietà per le bestie, sentivo però assai viva la solidarietà familiare; e un giorno, anzi una sera, che mia zia disse di avere un topo in camera sua, il quale non le permetteva di dormire, tirando attorno le ciabatte, mordendo la carta dei cassettoni e facendo altri indicibili guai, convenni anch’io che quel topo andava punito.
D’accordo; ma prima bisognava acchiapparlo.
Mia zia aveva quindici anni più di me; però, in fatto di topi, era di una impressionabilità fotografica. Da quando n’aveva visto uno traversare la camera e scappare sotto il canterano, non aveva più pace. Il topo le stava davanti agli occhi allucinati, dandole una tale preoccupazione che non voleva più coricarsi nel suo letto, prima che l’imprudente animale non le fosse portato, vivo o morto, davanti.
Lo descriveva, esaltandosi, come un coso nero, lungo un palmo, con dei baffi da imperatore e una coda lunga come le comete, che si vedeva per un pezzo dopo che la testa era sparita. Insomma, un topo antidiluviano, pericoloso, capacissimo di sbranarla nel sonno, portandole via un boccone di naso, o di entrare sotto le coperte, suscitando Dio sa quali complicazioni.
Chiamava a testimonio mia sorella maggiore, che dormiva nella camera vicina alla sua, per farle dichiarare d’aver inteso i rumori infernali che quel topo faceva di notte; poiché, non solo ciabatte, ma, secondo i detti di mia zia, esso aveva forza di muovere i cànteri, tirar giù le coperte e scuotere il letto.
Certo doveva essere un topo tettaiolo, o un ratto salito dalle chiaviche e abituato a laute imbandigioni, a grosse imprese; introdottosi in camera, chissà, per via della finestra, o salendo lungo i canali dell’acqua piovana. Portava dunque con sé lo sporco dei fognoli, la peste dei letamai; il suo morso doveva essere velenoso e mortale; insomma era giusto accoppai lo. Ma come fare?
Per fortuna c’ero io.
A cinque anni la paura non sapevo proprio cosa volesse dire. Detestavo gli spassi puerili e nessuno m’aveva mai visto giocare alle comarucce o divertirmi con le bambole. Compievo anzi con disinvoltura tutte quelle prodezze che i compagni stimavano pericolose, come scivolar dai fienili e passare di corsa sotto la pancia dei cavalli.
Una volta che, per certi rumori giù in cucina, mia madre aveva creduto che ci fossero i ladri, m’ero alzato anch’io, e in camiciola ero sceso davanti a lei, tenendo un lume e gridando: « Chi è là! » con una voce da fare venire la tremarella a chiunque. Io non temevo i ladri; desideravo anzi d’incontrarne qualcuno (la mia segreta speranza era di convertirli).
Mia zia fu dunque tutta consolata, quando le dissi che, se voleva dar subito la caccia al topo, ero pronto per unirmi a lei.
* * *
Organizzammo, lì per lì, un piano di campagna. Bisognava entrare con risolutezza in camera; chiuderne la finestra e la porta; poi con la scopa frugare sotto i mobili e, nello stesso tempo, levare un buscherio di grida per intontire l’animale, fargli perdere la testa e spingerlo a venir fuori. Infine si trattava di menargli il colpo di grazia.
Qui era il difficile; perché mia zia non avrebbe toccato un topo, vivo o morto, neanche per trovar marito. Ma c’era mia sorella, d’indole simile alla mia, e anzi più assodata; aveva dieci anni e fin d’allora tendeva con tutte le forze a fare il maschio (tutti notavano il suo passo un po’ rigido e soldatesco, che le veniva da chissà quali antenati di reggimento); quanto ai suoi muscoli ne conoscevo per esperienza l’elasticità e il vigore.
Mariella trovò subito ciò che le occorreva; andò a calzare gli scarponi ferrati che mio papà conservava come ricordo degli alpini e si propose, appena il topo si facesse vedere, di schiacciarlo sotto i piedi.
Da parte mia giudicai più sicuro munirmi del randelletto che serviva a rimestar la polenta. Così armati, mia zia Cecchina con la granata, mia sorella con gli scarponi e io col matterello, ci avviammo alla caccia del topo.
I nostri passi rallentavano, avvicinandoci all’uscio della camera, in proporzione inversa al battere dei nostri cuori. Accostato l’orecchio al buco della serratura, la zia dichiarò, dopo qualche momento, che sentiva dei rumorini. Ella fu la prima a entrare; io ero indeciso se montar la guardia sull’uscio o gettarmi subito nella mischia con gli altri; ma mi trovai rinchiuso prima d’averci riflettuto.
Mariella correva qua e là dove la zia ficcava la scopa. « Fifone! Birbante! — urlava. — Vieni fuori se hai coraggio! ». Ma il topo non mostrava di averne e non si vergognava punto di starsene nascosto. La zia Cecchina, incuorata dalla fellonia del nemico, rotava la scopa sotto i mobili, facendo: « Scc... scc... » e tenendosi le sottane alzate sopra il ginocchio, pronta a balzare sul letto, appena la bestia avesse a comparire. Ma era tempo perso.
Dagli angoli bui uscivan fuori soltanto i rimasugli dei suoi banchetti, e Mariella, che andava pestandovi con gli scarponi nella speranza di capitare sul topo, ammaccava invece scarpette e ciabatte innocenti e destava le apprensioni di mia madre, che sentiva da sotto tutto quel casa-diavolo. Per il topo, viceversa, pareva la più comune delle faccende. Quel vigliaccone se ne stava rincantucciato chissà dove; forse nell’uscio a muro, che faceva da armadio e dove c’era una quantità di vecchie ciarpe, oggettini, borse messe là alla rinfusa. L’istinto ci avvertiva che il topo doveva esser lì.
Finalmente la zia, tenendosi un poco da parte, girò la serratura e socchiuse l’uscio. Mariella, risoluta, ficcò il piede tra il cumulo della roba, sparpagliandola, lo mi tenevo poco lontano da lei in una grande tensione di animo; il mio matterello tremava forse un poco; ma io giuravo a me stesso di non dare un passo indietro a nessun costo.
Quand’ecco, a un tratto, odo un grido acuto; vedo la zia che scappa, Mariella che balza qua e là; dàgli, pesta, ammazza! A questo punto non posso dire quel che mi sia successo. Affermano che cascassi all’indietro e che m’abbiano raccolto in deliquio. È anche possibile, perché i miei ricordi presentano realmente una lacuna. Ma certo non fu la paura.
Fu, probabilmente, l’eccesso di coraggio, la mia decisione di rimanere là impavido, senza cedere un pollice di terreno, che mi causò quel trauma psichico, per il quale, davanti al nemico e nell’impossibilità di sopraffarlo, mi adagiai col mio matterello sul petto, come usano cadere gli eroi.
Mario Viscardini.

File: PDF, TESTO

Collezione: Diorama 07.11.34

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Citazione: Mario Viscardini, “Caccia al topo,” Diorama Letterario, ultimo accesso il 17 maggio 2024, https://dioramagdp.unito.it/items/show/1820.