Arrivo dei senegalesi (dettagli)
Titolo: Arrivo dei senegalesi
Autore: Riccardo Marchi
Data: 1931-10-14
Identificatore: 187
Testo:
Arrivo dei senegalesi
Le truppe di colore provenienti da Salonicco e dirette a Marsiglia giunsero, nel mio porto durante una torbida giornata dell’immediato dopo guerra: un autunno denso di vapori e di inquietudini per lo smagamento e il cupido desiderio di tornare a vivere ch’era in tutti. Le acque oleose stagnavano contro le banchine come una superficie di smalto da cui sorgevano chiglie d’ogni colore, ciminiere, sartie, pennoni, paranchi, gru, draghe e vele immote. Tutto era inerte, sospeso nell’accidia del meriggio, come uno scenario al quale gli attori non abbiano ancora dato vita. Gli ormeggi tesi sembravano avere il solo scopo di illudere che quelle cose morte fossero in qualche modo collegate alla vita terrestre. A pruavia i cannoncini che avevan servito per la difesa contro i sommergibili stavano reclinati, inutili, ridicoli con le bocche otturate.
Sulle banchine formicolava una folla varia. Si muovevano in quella greve atmosfera quasi a fatica invischiati sui selciati grassi di untumi e di benzina. Pullulavano i venditori di leccornie; fermentavano i cedri dentro le botti allineate lungo i capannoni; fustami di ogni sorta formavano curiose barricate come dopo un lungo assedio e dalle casse, dai barili, dai fardi, dai legazzi gemicavano sostanze oleose, catrami, conserve, vini inaciditi, acqua salsa. Da una gru un’enorme botte d’olio di palma sospesa nel vuoto lasciava colare dalle fenditure una sostanza rossigna liquefatta dal calore, mentre, nella ferita dilagante sul selciato, due uomini immergevano della stoppa, la ritraevano pregna d’olio e io spremevano dentro alcune stagnate rimanendo con le mani bruttate in aria perché tutto l’olio colasse.
Poi il porto si animò. Si udì fuori del molo un lungo sibilo; un rimorchiatore vi fece il suo ingresso portando a rimorchio cinque barconi stracarichi che sembravano aggottare. Una larga fenditura con increspature profonde si formò nella distesa immota delle acque. I velieri sussultarono; le antenne crocchiarono; gli ormeggi gemettero. Poi fu la volta di un grosso vapore grigio, una tradotta battente bandiera francese che avanzò con prudenza per non dar nelle secche e si ormeggiò a fatica facendo udire il respiro asmatico dei suoi motori. Sopra coperta c’era uno strano agglomeramento di uomini neri: un carico di ebano contraffatto dagli abiti turchini, gli elmetti di ferro e le bandoliere lucide. Non si muovevano; osservavano con sguardi apatici e senza inquietudine la folla accorsa sulle andàne. (Gli uomini facevano cenni; le donne avevano risi chiari come se gli acri fermenti delle mercanzie e i desideri ch’erano in loro e in aria non le turbassero affatto). Stavano muti, i negri. Non si mostravano stupiti di quel forse inaspettato ritorno alla vita di pace dopo la lunga navigazione, i bivacchi nelle città d’Oriente e il loro passare da un campo trincerato all’altro, fra città e uomini diversi. Nemmeno il ricordo di avere una divisa, un’arma, un grado doveva essere più vivo in loro. Non cantavano; nulla avevano da dire: la loro svagata anima non sussultava più per i ricordi delle fantasie della loro terra e i canti eccitati da fèrvide sensualità.
Intanto le carovane degli scaricatori prendevano posto nelle imbarcazioni, salivano le scalette dei piroscafi; qualche sirena sibilò; i boccaporti furono riaperti; dai paranchi i colli delle mercanzie calarono nei barconi; i carboni e i fosfati furono vomitati dalle cucchiaie meccaniche lungo le murate e sollevarono densi nuvoli neri e giallastri che tinsero per breve tratto il cielo e le acque. Voci di comando, urli, cantilene con le quali si alleviava quella nuova fatica si levarono un po’ dovunque.
I negri sbarcarono e si mescolarono alla folla. Offrivano in cambio di pochi denari scatolette di carne, salmone, gallette, mosciame, indumenti. Mandavano uno strano odore di sentina. Erano aitanti, dalle gambe esili sproporzionate al volume del dorso e della testa. Le labbra enormi cianotiche, anziché rosse, rivelavano ch’erano sofferenti e il clima nostro nè avrebbe ucciso qualcuno. Gli occhi erano vivi: saettavano sotto una réte di filamenti sanguigni, come sprillassero un fuoco da tempo nascosto. Le giubbe aperte lasciavan trasparire dalle camicie lorde i velli del petto più neri della carne e, a qualcuno, i punti arrossati delle mammelle quasi che le vesti pesassero loro e fossero presi da un primitivo bisogno di nudità.
Procedevano dondolando le teste enormi che sembravano infitte a schidioni e strascicando le gambe stecchite raggomitolate nelle mollettiere con le ròtule snodate sotto i calzoni attillati. Le mani a spatola si agitavano lungo i fianchi come remassero l’aria. Parlavano correttamente il francese; si divertivano un mondo a carezzare i monelli; dicevano galanterie alle popolane; mostravano ridendo chiostre di denti bianchissimi e gole voraci che non facevano paura a nessuno. La loro anima si schiariva: diveniva aperta, cordiale come quella di bambini tenuti per molto tempo nell’oscurità completa che tornano ad ammirare le cose quasi fossero del tutto nuove.
Un popolano disse: — Avverrà una strage se molesteranno le donne! — Ma quella voce non trovò nessuna eco. Stupiva anzi di vedere con quale rapidità stabilivano contatti coi curiosi e com’era loro facile farsi intèndere con gesti e parole; qualcuno conosceva perfino la nostra lingua: erano passati altre volte durante la guerra. Era facile allora illudersi che i flussi umani provocati dal conflitto avessero creato nuove possibilità di comprensione fra uomini di razza diversa.
Un giorno — si pensava — se il caso bizzarro ci porterà in qualche zona sperduta d’Africa, udremo qualche negro salutarci nel nostro idioma.
La folla si faceva più numerosa sul ponte che unisce la città al porto traversando la darsena. Intorno i barconi neri con le staminàre impeciate immalinconivano mostrando le vuote cavità. Sugli scali dei vecchi cantieri stavano pochi bastimenti reclinati sui fianchi con le ramature slabbrate in attesa che qualcuno si curasse di calafatarli e ridonarli al mare.
Un cieco seduto sul marciapiede suonava una grossa armonica ed ogni volta che l’apriva smisuratamente il suo corpo esile scompariva dietro le pieghettature di cuoio come se le note musicali, raggiungendo la massima intensità, volessero rendere visibile solo la parte più spirituale di lui: le mani e la testa. Le mani ch’erano scarne dalla pelle vizza vagavano sulla tastiera annerita e la testa tutta cavità, le occhiaie vuote, le mascelle rientrate per la mancanza dei denti gli conferivano un aspetto di fantasma disseccato tenuto in vita solo in virtù di un inaudito prodigio: il prodigio della sua musica, forse.
Modulava poche note e rimaneva spesso con tre dita sospese in aria tenendo lo strumento col pollice e l’indice in attesa che la vibrazione cessasse; riprendeva quindi l’ultima nota accennando una melodia: era una vecchia canzone appresa a orecchio, forse niente, un ghiribizzo della sua anima cieca.
A semicerchio i negri si erano soffermati e si divertivano a uccidere la nenia gettando monete ai piedi del suonatore, tante che non si sapeva come avrebbe fatto poi a raccoglierle. Un cane spelacchiato con la testa reclinata sulle zampe anteriori osservava quella pioggia benefica e socchiudeva pigramente gli occhi.
Fu forse il tintinnio delle monete ad animare il cieco. Le note si rincorsero, si confusero, dipanarono antiche e nuove arie popolaresche — il mantice si apriva e si chiudeva senza tregua — un caos di liete reminiscenze che allietavano l’anima del vecchio mentre un debole sorriso errava sulla sua maschera scarnita.
Allora le teste di giavazzo, ch’erano rimaste inerti con espressioni di cieca malinconia, si animarono, sorrisero, cominciarono a dondolare. Voci gutturali ritmarono il suono dell’armonica; gambe esili si agitarono come sotto il fascino irresistibile di una fantasia erotica o guerresca accennata dai tamburi dalle pelli di ippopotamo o dalle trombe di conchiglia marina coi ricordi della terra che li aveva visti nascere.
Le danze continuarono fino a sera fra la crescente curiosità della folla. I sottufficiali francesi intervennero solo qualche volta per allontanare i danzatori che l’eccitazione faceva trasmodare in gesti sconci. Il cieco continuò a suonare finché il cielo, invermigliandosi e oscurandosi poco dopo, sembrò abbassarsi per distendere una gelida carezza su tutte le cose. Se ne andò con l’armonica a tracolla, le saccocce piene di denari e il cane a guinzaglio mentre le luci dei lampioni ne rendevano l'ombra smisurata e grottesca. Le voci dei passanti erano divenute sommesse quasi fosse in loro, dopo quella specie di orgia incruenta, una più pacata volontà di vivere.
Quella nera ventata si perse nei vicoli stretti della suburra, nelle strade dove il cielo è imprigionato da muraglie altissime con finestre ermeticamente chiuse e porte aperte che allagano sui selciati losanghe di luce rossa. Vi si scorgevano antri lucidi di mattonelle bianche e gialle, scale di marmo con le ringhiere splendenti e scorci di strane sale con tende, quadri, colonne, piante di fiori artificiali, lumiere contrastanti con la miseria dei muri esterni sbertucciati e cariati.
Da una di quelle case venivano perfino dei canti. Una voce femminile sovrastava su’ quel misto di splendore e di sozzura, venata di malinconia, modulando una nenia tanto simile a quella suonata dal cieco, a tratti liberata dall’influsso di quelle strane cose:
fenesta ca lucive e mo' non luce!
Era la seduzione più grande di quella strada dove transitavano per solito i marinai di tutti i mari e di tutti i porti.
Riccardo Marchi.
Collezione: Diorama 14.10.31
Etichette: Riccardo Marchi
Citazione: Riccardo Marchi, “Arrivo dei senegalesi,” Diorama Letterario, ultimo accesso il 21 novembre 2024, https://dioramagdp.unito.it/items/show/187.