Madre e figlia (dettagli)
Titolo: Madre e figlia
Autore: Liogi Volpicelli
Data: 1935-01-09
Identificatore: 1935_45
Testo:
Madre e figlia
Era il treno delle undici. Si sa come fa la gente quando è sera. Chi arriva cinque minuti prima della partenza ha l’impressione che non ci sia più un angolo vuoto negli scompartimenti.
Percorrevo indeciso i corridoi deserti, sempre con la speranza di trovare più in là il modo di accomodarmi senza aver la noia di dar fastidio a nessuno. Scorsi, infatti, una porta socchiusa: tuttavia, anche li era spenta la luce e le tendine abbassate. Mentre mi avvicinavo, s’affacciò una donna: prima ancora che le domandassi mi rispose in fretta: «Tutto occupato », e si ritirò, chiudendo l’uscio. Ma avevo intravisto che non c’era nessuno dentro. Forse gli altri saranno in giro, pensai. Eppure mi fermai lì. L’avevo appena scorta: un viso ovale, pallido: una gran massa di capelli neri e crespi. Ma più mi aveva colpito l'accento. Pensavo che fosse siciliana.
Dopo che il treno si fu mosso e nessuno ormai veniva, entrai. Non chiesi permesso; ed ella, quasi se l’aspettasse, non si voltò nemmeno. Sedeva in un angolo; sulle ginocchia, a cavallo, teneva una bambina di un paio d’anni. Rideva rumorosamente, con certe piccole grida mozze; e la bambina stava seria, imbronciata quasi, come se ridesse di lei.
Le faceva delle carezze che parevano gherminelle e le parlava. Non era siciliana; italiana, di certo: ma un dialetto che non avevo mai inteso, a scoppi da balbuziente, con certi suoni spagnoli, mi pareva.
Non volevo disturbarla; aprii i1 giornale cercando di valermi della luce che veniva dal corridoio. Dopo un poco ella si tacque, accomodò la bambina sul divano, e subito cominciò a parlare a me.
Diceva stentatamente, accentando le parole a suo modo, da farmi sospettare davvero che fosse straniera e che avesse qualche difetto di pronuncia: una parola ripeteva spesso, soffiandola, quasi, con un tono irragionevole di umiltà e, non so, di paura: señor, señor. Non saprei ripetere il giro del suo discorso, la logica dei suoi nessi. Capii tuttavia che potevo distendermi: a lei e alla bambina bastava l’altro divano. Tornava a Malta; era stata in Inghilterra a trovare il marito soldato, e mi mostrò la fotografia di una specie di Carnera vestito da policeman.
Dovevo pensare per forza che fosse maltese, ed ero perplesso per quel suo parlare stentato, a piccole grida selvagge, come gli arabi. E gesticolava, gesticolava. Riflettevo deluso, credo, su quella razza isolana, che non conoscevo, quando mi dichiarò di essere turca. Mi parve, allora, come se l'avessi saputo e di già formulato dentro di me, questo. Aveva i capelli così crespi da parere arruffati, il viso, più che pallido, olivastro, con un profilo camuso, il naso schiacciato e le narici rilevate come due minuscole orecchie, la bocca larga: ma soprattutto i denti, divisi nel mezzo, mi sembravano il contrassegno di una razza barbarica.
Ora mi pareva di capire. Aveva gesti snodati, scimmieschi quasi, e ripeteva quel señor come non fosse una donna, una compagna di viaggio, ma con un accento di umiltà schiava, quasi pavida, che mi dava disagio. Ed anche il suo sorriso era servile.
La bambina si mosse. Troncò il discorso, la riprese sulle sue ginocchia a carezzarla e dirle parole, che non capivo, a ridere, a ridere. Evidentemente giocava con lei, ma come con una cosa inanimata; eppure in quegli strattoni, in quelle scosse selvagge, c’era una profonda delicatezza, una intensità di affetto, quasi fosse l’unico bene che avesse al mondo. E la bambina rimaneva seria: solo talvolta, quando ella più minacciava di farle male con i suoi assalti improvvisi, sorrideva dilatando la bocca. Si trasfigurava allora e ricopriva il piccolo volto di rughe sottili sottili, come la faccia di una vecchia spelata. Nella penombra della luce notturna si vedeva benissimo la sua somiglianza con la madre, ma ne sembrava una caricatura grottesca in un essere così piccino. Ella accentuava le irregolarità somatiche della donna: la bocca larghissima, i denti radi, i capelli arruffati, gli occhi asiatici. Quando si grattava la testa o sorrideva, pareva un mostriciattolo, uno spiritello maligno e sardonico. La donna le premeva la punta del naso e rideva a vederla così deformata. Pareva davvero che la beffeggiasse, che ridesse della sua bruttezza; ma, poi, la stringeva al petto e la carezzava: e la bambina ricomponeva un volto severo, come meditativo.
Improvvisamente, cominciò a piangere: urlava, si grattava la testa, si batteva il volto. La donna si alzò, apri una valigetta. Era roba da mangiare, ma non vidi che cosa, perché tutte e due si erano voltate di spalle; anche la bambina, subito rappacificata.
Si diffuse per lo scompartimento un puzzo acuto di acido, di senapa, di aringhe, che mi prese alla gola. Mangiavano in silenzio, volgendomi le spalle: e il puzzo cresceva d’intensità, scomposto nei suri elementi: puzzo di tonno, di droghe, di salmastro. L’aria ne era satura. Non potevo resistere: uscii, lasciando la porta socchiusa.
Quando tornai, dormivano. In terra erano pezzi di carta, molliche, tracce d’unto. La piccola era raggomitolata in un cantone, con i piedini contro il viso della madre. Ella s’era distesa supina, come vinta da una stanchezza mortale, abbandonata, quasi fosse nella propria camera. La veste s’era tirata un po’ su: mostrava due gambe bellissime, agili, con le ginocchia nervose e metalliche; ma quel puzzo che era nell’aria manteneva loro il fiato caldo della carne.
Mi distesi, cercando anch’io di dormire; ogni posizione m’era scomoda; scorgevo nella penombra il palpito del suo corpo. Mi rigiravo. Accesi una sigaretta. Le volute del fumo erano dense, corpose. Mi coprii il volto con il fazzoletto, il contatto fresco della tela valse ad assopirmi. Quel dormiveglia che in treno fa passare la notte. Ogni tanto si aprono gli occhi di soprassalto, poi ci si stira con le spalle indolenzite e calde, le ginocchia diacce. Ella dormiva profondamente, nella stessa positura di prima.
Appena cominciò ad albeggiare mi levai a sedere, come uscendo da un lento martirio. La scarsa luce e il fumo delle mie sigarette empivano come di nebbia lo scompartimento. I vetri appannati fingevano della chiarità mattinale un cielo piovoso. Sentivo di bruciare, pur avendo dei piccoli brividi di freddo. I trafori mi ripiombavano ogni tanto nella notte.
Pulii un vetro con la tendina e scorsi il mare avvolto di tenui nebbie color rosa. Lo sperone di Pizzo di Calabria apparve come uno scenario verde e cupo.
La donna si destò. Mi sorrise. La bambina seguitava a dormire. Ella la sollevò, la mise dall’altro capo. Le sue mani erano bellissime, affusolate, agili, con le lunghe dita magre e nervose. Erano sporche e facevano risaltare di più la delicatezza rosata delle unghie. Si sedette accanto a me.
Ora la bambina s’era svegliata: sorrideva, coprendo il piccolo volto di rughe, si rifaceva seria, borbottava, taceva. Ma tutto di per sé, come fosse sola. Ad un tratto si fermò a guardarci, immobile.
Con un pezzo di cioccolata s’era impiastricciata il viso, la fronte, le mani. Pareva davvero un piccolo essere maligno.
La madre, invece, si staccò da me e cominciò a ridere: quel suo riso a scatti, a piccole grida. Batteva le mani, e mi indicava la figlia puntando l’indice: « Señor, señor, guarda señor »: Ma quando la piccola cominciò a piangere, ella subito tornò al suo divano, la riprese sulle ginocchia, a farla saltare, a dirle parole che non capivo, e la stringeva al seno e le schiacciava il naso, ridendo, ridendo, fino a farla ridere.
Luigi Volpicelli.
Collezione: Diorama 09.01.35
Etichette: Liogi Volpicelli
Citazione: Liogi Volpicelli, “Madre e figlia,” Diorama Letterario, ultimo accesso il 23 novembre 2024, https://dioramagdp.unito.it/items/show/1954.