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Titolo: Enrico Pea

Autore: Non firmato (Lorenzo Gigli)

Data: 1931-10-28

Identificatore: 201

Testo: GALLERIA

Enrico Pea

L’Editto è un poco un vivaio di letterati nostri: vi son nati Marinetti e Ungaretti, vi dimora qualche mese dell’anno il lombardo e manzoniano Viscardini, vi si è guadagnato rudemente la vita il toscano Enrico Pea, autodidatta passato attraverso molte esperienze. Il Pea è di Seravezza, dove si sega il marmo delle cave apuane; ha una cinquantina d’anni ed ha girato il mondo mediterraneo commerciando come un levantino. Adusto, nericcio e irsuto, con una barba fosca che gli chiude il volto in una selva di peli ribelli, par uomo d’altro tempo che non sia il nostro e d’altra terra che non sia quella serena di Toscana; par uomo d’altra razza, e qualche lontano legame etnico deve pur contare nella storia della sua gente se nelle sue più robuste e vive impressioni paesane senti d’improvviso un tocco, un segno, un richiamo che li portan fuori per incantesimo dalla chiara cornice latina e ti immettono in atmosfere cupe e pesanti, simili a quelle che accompagnano tragiche migrazioni di popoli. Non è il Pea uno scrittore facile e popolare. Si fece avanti con un piglio da poeta barbaro e primitivo, duro e violento; poi si mise a sbatter colori sul muro a calce della prosa vernacola, impiegando quel gergo di Serarezza che conferisce a tante sue pagine un'aria scontrosa e irritata. Cominciò cent’anni fu con le Fole, leggende popolaresche strane e paurose, in versi; continuò con Montignoso e lo Spaventacchio, tenuti a battesimo da quelli della « Diana » e della « Voce »; lavorò per il teatro (una sua trilogia rappresenta il dramma del popolo ebraico, la sua disgregazione e il suo vano desiderio di pace); sfociò infine nella prosa narrativa con Moscardino, libro di ricordi che procede per notazioni essenziali, deviando costantemente in particolari coloristici e lirici, integrativi; continuato poi dal racconto II volto santo. Questa è la bibliografia di Pea, che oggi s’arricchisce d'un numero nuovo, Il servitore del Diavolo (ed. Treves, 1931), formato di due racconti, quello che dà il titolo al volume e La figlioccia. Atmosfera medianica, psicologia cupa, nel primo: e quella predilezione dell'incubo, del sortilegio e della paura che è tipica di tutta l'arte del Pea e che, date, le sue origini d’autodidatta, interessa come sintomo di misteriose influenze etniche, valide e dominanti. Il racconto è anche stavolta di tipo autobiografico: e vi notiamo subito la rivincita dello scrittore letterato e della lingua schietta sullo scrittore vagabondo e sul gergo e dialetto. La prosa del Pea, viva, succosa, s’è liberata, negli otto anni che corrono tra il Volto santo e il libro nuovo, d’ogni capriccio e tirannia e s’è ricondotta alle forme pure della tradizione toscana. Sostanza torbida, e interpretazione tragica della vita e dell’umanità; ma trattate su piani lirici di grande forza evocativa. Il racconto ha movimenti iniziali che ci riconducono a certa letteratura illuministica del tardo Settecento; ma si svincola poi per esplodere in una specie di canzone di gesta dove figurano eroi d’una società anarcoide trapiantati su uno scenario d'oriente e stretti in ingenue congiure per sconvolgere il mondo. Racconto impressionante, prepotente, per violenza di scorci e d’atmosfere. Il secondo, quasi a contrasto, ma con non minore virtù d'arte immaginativa ed espressiva, inquadra in un paesaggio argenteo d'ulivi una figura indimenticabile di ragazza.

File: PDF, TESTO

Collezione: Diorama 28.10.31

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Citazione: Non firmato (Lorenzo Gigli), “Enrico Pea,” Diorama Letterario, ultimo accesso il 17 maggio 2024, https://dioramagdp.unito.it/items/show/201.