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Titolo: Riflessioni sulla letteratura

Autore: Giuseppe Ungaretti

Data: 1935-03-13

Identificatore: 1935_138

Testo: Riflessioni
sulla letteratura
Costanza del canto nella poesia italiana.
Ho tolto la pagina su Dostoievschi, comparsa nell'ultimo « Diorama », da vecchi appunti del '22. Sono dettati in modo che mi riportano indietro a valutare quel poco che ho voluto fare, ed avrò fatto, in arte. Le mie preoccupazioni in quei primi anni del dopoguerra — e non mancavano circostanze esterne a farmi premura — erano tutte tese a ritrovare un ordine, un ordine anche, essendo il mio mestiere quello della poesia, nel campo dove, per vocazione, mi trovo più direttamente compromesso. In quegli anni non c’era chi non negasse che fosse ancora possibile, nel nostro mondo moderno, una poesia in versi. Non esisteva un periodico, nemmeno il meglio intenzionato, che non temesse, ospitandola, di disonorarsi. Si voleva prosa: poemi in prosa! La memoria a me pareva, invece, un’ancora di salvezza: io rileggevo umilmente i poeti, i poeti che cantano. Non cercavo il verso di Jacopone, o quello di Dante, o quello del Petrarca, o quello di Guittone, o quello del Tasso, o quello del Cavalcanti, o quello del Leopardi: cercavo in loro il canto. Non era l’endecasillabo del tale, non il novenario, non il settenario del talaltro che cercavo: era l’endecasillabo, era il novenario, era il settenario, era il canto italiano, era il canto della lingua italiana che cercavo nella sua costanza attraverso i secoli, attraverso voci così numerose e così diverse di timbro e così gelose della propria novità e singolari ciascuna nell’esprimere pensieri e sentimenti: era il battito del mio cuore che volevo sentire in armonia con il battito del cuore dei miei maggiori di questa terra disperatamente amata. Nacquero così, dal ’19 al ’25, Le Stagioni, La fine di Crono, Sirene, Inno alla Morte, e altre poesie nelle quali, aiutandomi quanto più potevo coll’orecchio e coll'anima, cercai di accordare modernamente un antico strumento musicale che fu in seguito, bene o male, adottato da tutti.
Pensavo alla memoria, e non potevo non essere ingiusto col sogno. In verità non era ingiustizia; ma la persuasione, che stava maturandosi in me, che la poesia italiana non fiorisce se non in uno stato di perfetta lucidità. Tecnica, sensazioni, logica.
sogno o fantasia e sentimento: tutte queste cose per noi non hanno senso se simultaneamente non vivano oggettivate — per un poeta in una parola che canti. E dunque il fatto stesso di credere molto più che in noi, nelle nostre opere, di sentirci senza rimedio modellati non dal nostro mondo interno, ma dalle nostre opere, implicherà da parte della memoria un intervento chiarificatore. Le cose, a questo solo patto muovono la nostra fantasia, si collocano al loro vero posto, acquistano per noi la sola profondità che conti, quella del tempo. e ci meravigliano — già così distaccate da noi, così distanti — per il loro pudore, e ci fanno, se vi pare, sognare; ma è un sognare ad occhi aperti.
Certo commettevo un errore quando nel ’22 dicevo che in Dostoievschi non c’era se non un fantasma che diventava turba per potenza allucinante dello scrittore. C’è realmente una turba, e non di fantasmi; ma di cuori doloranti — un dolore d’inferno. E una turba, e ciascuna persona è data — il senso vivo di ciascuna persona — non per quello che ha fatto o voluto fare, ma per quello che ha sognato di fare — e sognato è qui detto in senso letterale: per quello che le è come apparso in istato di sonno, e che non si sa come interpretare, e che viene raccontato come se un cieco dalla nascita raccontasse la sua visione del mondo. E se in questi romanzi si fa un gran parlare del divino e di Dio, in fondo in fondo è orrore della vita, è senso del nulla equivalente a senso del divino: è il senso dell’umanità decaduta, come una di quelle orrende mitologie dell’ateo Estremo-Oriente, a turba mostruosa di fissazioni.

Epilogo a Valchiusa.
Sono stato a Valchiusa.
Ho visto quell’acque che salivano, su nell’abside della roccia, sino all’altezza di 29 metri.
Gettai una pietruzza: adagio varcò « il liquido cristallo » rimanendomi sempre ugualmente chiara, giù per 29 metri, fino al « fresco erboso fondo »:
O vaghi abitator de' vecchi boschi, O ninfe, e voi che il fresco erboso fondo Del liquido cristallo alberga e pasce, I di mici fur sì chiari...
Giuseppe Ungaretti.

File: PDF, TESTO

Collezione: Diorama 13.03.35

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Citazione: Giuseppe Ungaretti, “Riflessioni sulla letteratura,” Diorama Letterario, ultimo accesso il 14 maggio 2024, https://dioramagdp.unito.it/items/show/2047.