Il mondo cambia (dettagli)
Titolo: Il mondo cambia
Autore: Ugo Betti
Data: 1935-04-17
Identificatore: 1935_178
Testo:
Il mondo cambia
V’è ancora qualcuno che, incontrando uno scrittore, non nasconde una leggera sorpresa trovandosi di fronte a un uomo come tutti gli altri. Questo riservato, sorridente signore, a non saperlo, lo si potrebbe incontrare per degli anni sul nostro stesso pianerottolo, e forse non si avrebbe mai motivo di sospettarlo altra cosa che un ingegnere, un commerciante, un dottore. È una mancanza di pittoresco che delude un po’ certe idee fatte. Qualcosa sta cambiando, anche qui.
Molte sono le strade che conducono alle misteriose soglie dell’arte; ed è certo che si può benissimo percorrerle sia col tempestoso cipiglio dei poeti maledetti, sia con l’umano tranquillo sguardo da medico campagnolo di un Carossa, ad esempio. Né si vuol dire qui che certi noti atteggiamenti da irregolare ad ogni costo, certe stranezze di costume, di gesto, che furono un tempo l'« uniforme » dell’artista (e lo sono un po' ancora nel pensiero di molta gente dabbene) siano stati sempre una truccatura fatta per la platea. Sentimmo anzi talvolta in certe colorite selvaggerie di artisti il tormento schietto, toccante, di anime che non potevano essere che così. E tuttavia è innegabile che qualche cosa cambia, anche da questa parte. E se in un panorama d’artisti rivediamo quelle capigliature sulle spalle (alla Gordon Craig, per intenderci), quelle cravatte, quei ruggiti, quelle civetterie, infine, che da un lato arrivarono al bagno in mare, nudi, in groppa ad un bianco destriero, e dall’altro alla estrema bohème delle notti dormite, per disprezzo d’un letto, sulla sedia di un caffeuccio notturno, se oggi rivediamo ancora, per caso, tutto ciò, o qualche cosa di simile, siate pur certi: si tratta quasi sempre di gente leggermente in ritardo, gente magari regolarmente domiciliata sulle rive sinistre di Parigi, o di Berlino, ma giuntavi, come è costume, che so io, dal Sud-America, dai Balcani. (Anche qualche anglo-sassone è dato incontrare in questa zona; ma qui si tratta della vecchia polemica antipuritana, così dura a morire nell’arte di lassù).
È imprudente enunciare dei giudizi generici per una categoria che in realtà è formata da due strati non solo diversi ma opposti: gli artisti e coloro che spendono la vita nel tentativo di farsi credere e di credersi tali. Tuttavia è certo che quell’atteggiamento, antiquato come un panciotto 1830, fu dapprima una ribellione quasi legittima dell’artista (dell’artista romantico) contro la gretteria del volgare; fu l’affermazione di un destino e di una missione disperati, estremi, superiori. Il tempo lo abbassò e lo capovolse, da quel che era, atto di superbia e di guerra, in un ammiccamento dell’artista che si fabbrica un tipo per fabbricarsi una notorietà; che (magari senza rendersene conto) elemosina l’attenzione del borghese fingendo o credendo di schiaffeggiarlo, espediente di successo quasi immancabile.
L’artista di oggi, questa persona che i vicini di casa possono scambiare per un ingegnere o per un dottore, è disceso, in sostanza, da un piccolo palcoscenico, è passato fra i ranghi. È difficile pensare che ciò sia stato soltanto un materiale trasloco; oppure un ennesimo aspetto di quelle esigenze che orientano il nostro tempo — edifici, uomini, passioni, consuetudini e romanzi — verso una decenza decorosa ed anonima, a pareti lisce, uguale per tutti. Né è possibile credere, se un motivo intimo vi fu, ch’esso sia stato soltanto e per tutti una rinuncia; rinuncia di gente che ha perso le sue illusioni, rassegnata ormai a pensare che scrivere una commedia o scolpire una statua non è in fondo cosa troppo diversa e più alta da quella che occupa l’avvocato del piano di sopra o l’agente di cambio del piano di sotto (i quali, fra l’altro, ne traggono un guadagno assai maggiore). Amiamo pensare, invece, che a un dato momento, e cioè mentre tutti erano portati a considerare la propria posizione e la propria opera in un panorama di strutture sociali, gli artisti, o i migliori fra essi, abbiano sentito orgogliosamente di non essere affatto un oggetto di curiosità, un gingillo superfluo sul tavolo di un salone.
L'artista ha avuto probabilmente la sensazione che quella sua inalienabile, estrema, superiore funzione, se non è, come non è, una finzione poetica, non può essere altro che una funzione. a modo suo, di comando, cioè da esercitare non in una solitudine pittoresca, ma nel calore di una moltitudine, in una società, in una storia; né è possibile affidarne in benché minima parte l’affermazione a delle capigliature, o a delle scapigliature, cioè a delle consuetudini di vita che non possono non portare la cosa su un piano di esteriorità divertente. L’artista è passato in rango, probabilmente, perché le pericolosissime parole che qualcuno bisbigliò vicino a lui, o in lui, per dirgli che l’arte e l’artista vivono in una zona di bene e male che non sono il bene e il male di tutti, hanno cominciato a riempirlo non più di albagia come un tempo, ma di pudore e quasi di sgomento. Egli sa che quelle parole, se hanno uri senso, hanno quello di porgli dei grossi doveri; e dei sì piccoli diritti! Egli sa che quelle parole, se contengono una verità, per l’artista, una verità alla quale egli può talvolta consolarsi e riposarsi, ne contengono una bellissima, ma dolorosa e soprattutto segreta.
Ugo Betti.
Collezione: Diorama 17.04.35
Etichette: Ugo Betti
Citazione: Ugo Betti, “Il mondo cambia,” Diorama Letterario, ultimo accesso il 21 novembre 2024, https://dioramagdp.unito.it/items/show/2087.