Vecchio ghetto (dettagli)
Titolo: Vecchio ghetto
Autore: Riccardo Marchi
Data: 1931-11-18
Identificatore: 213
Testo:
Vecchio ghetto
Bisogna far presto a liberar la città dallo scandalo delle vecchie case. Cosi, sventrate a metà dal piccone, incutono una specie di ribrezzo come quando capita di entrare nelle stanze anatomiche. Su questo vecchio muro intanto stanno praticando una breccia: fra poco vi avvolgeranno un grosso canapo e tireranno in molti dal centro della strada fino a far precipitare tutto. Gli oziosi da lontano si godranno questo spettacolo màcabro.
Intanto la parte superiore della casa è già crollata. Il sole ch’era cosi avaro svergogna una buona volta gli angoli delle stanze scamozzati dal piccone e dal tempo: muri tinti di rosso pompeiano, chiazze nere, orme di grandi mani, pertugi misteriosi, carte fiorate che si. aprono come ragnatele secolari.
Là si amavano, si uccidevano, gioivano, languivano... Ma cosi apèrte, le stanze ricordan solo i delitti che vi furono commessi durante i secoli. Forse, nottetempo, qualche sopravvissuto, attirato dai rimorsi o dal fascino che esercitano i luoghi maledetti dove si è infranto la legge di Dio, risalirà la scala ripidissima e, nella folle ostinazione di riviverli, i delitti, proseguirà fin dove gli scalini furono spezzati e precipiterà nelle macerie: il dito di Dio.
Forse quando al posto delle macerie del vecchio ghetto ci sarà una piazza aperta a tutti i venti, mi riuscirà più facile ricostruire con la memoria la casa a sette piani dove abitava il mio compagno di scuola Leo Levin. La facciata — ricordo — si contendeva il sole con quella dello stabile dirimpetto e ne avevano raramente poco tutt’e due.
Trasudavano, poverine, e in certi punti i pori creavan chiazze umide da far paura e quasi pensavi fosse l’untume di chi vi stava dentro. Lungo i muri bassi cresceva una specie di humus gialliccio, verde laddove questi si collegavano col selciato rimosso. Ma la mancanza del sole e il tanfo che veniva dai rigurgiti delle fognature non toglieva alla strada una cert’aria di favola che mi calamitava quasi.
E Leo, scettico, sempre pronto a disincantarmi: — Io so — diceva — perché tanti uomini salgono al primo piano... C’è una porta aperta e mio padre vuole che abbassi gli occhi passando...
Con Levin si pensavano e dicevano sempre cose non comuni agli altri nostri coetanei e che i figli dei ricchi non potevano nemmeno concepire... Ma quei bisbiglii sommessi e i volti patiti di femmine che apparivano al terrazzo del primo piano — sulla ringhiera rugginosa ingiallivano poche foglie d’edera — mi facevano un effetto strano. Qualche volta una pena infinita, senza sapere il perché, e allora mi sembrava che Leo mentisse dicendo chi eran veramente, e talora avevo paura, solo paura: era quando liticavano fra loro o figgevan nella penombra occhi ladri che davano il capogiro.
— Il babbo — sospirava Leo — dice che è necessario trovar casa nuova, ora che sto diventando uomo, ma il nonno non vuole. Afferma che andremo tutti in rovina se lasceremo la casa dove abita da quando giunse con suo padre dalla Spagna dove gli ebrei eran perseguitati. Aveva allora meno della mia età, il nonno.
Quest’avo di Leo non l’ho mai conosciuto. Stava inchiodato ad una scranna per una paralisi, ed era poco amato dal nipote. Un giorno riuscì ad acciuffarlo ed a percuoterlo perché l’aveva sorpreso a rosicarsi le unghie. Il vecchio, seppi, se le tagliava accuratamente e le poneva in un sacchetto di cuoio. Gli avrebbero servito ad artigliare le nubi e scalare il trono di Geova, secondo l’usanza biblica, il giorno del trapasso.
Era tanto diverso da me, Leo. Mi interessava, forse lo amavo per la sua diversità, per l’abisso che ci divideva. Esercitava un certo fascino quel suo strano modo di considerare le cose.
— Non capisco — diceva — come a teatro (riuscivamo ad entrarvi qualche volta di scappellotto) tu rimanga a bocca aperta come se sognassi qualcosa quando vedi i troni le armi e le vesti degli attori. Non riesci a convincerti che son quelle stesse che il signor Giacobbe scarica ora dalla sua carretta.
Era quest’ultimo un’attrezzista teatrale che aveva casa e magazzino al secondo piano della casa di Leo. Vecchio, cadente, strascicava lui stesso il veicolo con quei magnifici oggetti. I mobili dalle dorature stinte che si svuotavano ad ogni scossa per il lavorio dei tarli, le colonne di cartone, gli arazzi, le mantiglie, le pantofole color granata, le pianelle ornate di vetri lucenti, gli elmi, le alabarde, gli scettri, i leggii, le parrucche, i troni smontabili risalivano la scala ripida, tornavano dentro un androne umido e buio dopo aver illuso la gente. Risuonavano allora le bestemmie della padrona del primo piano è dei suoi visitatori che volevan salire senz’essere disturbati.
Quella visione e le parole di Leo mi avrebbero reso scettico: non mi divertivo più a teatro. Trovavo miserrima quella roba che alle luci della ribalta mi era apparsa fastosa. Sapevo di che panni vestivano gli eroi delle tragedie e da dove veniva quella mobilia e com’eran ridicoli i troni visti da vicino, a pezzi...
Più tardi Leo mi sarebbe divenuto odioso per quel suo modo di farmi veder le cose come eran veramente e non come le immaginavo.
Abitava al quarto piano, al terzo c’era un albergo dei poveri, al quinto e al sesto un’intera generazione di ebrei, i più miserabili del ghetto — almeno così appariva — venditori ambulanti, metà accattoni che qualcuno però voleva ricchissimi e si congetturava dove nascondessero i loro tesori. Il babbo di Leo era un omaccione flaccido che non si sapeva come sopportasse il peso dei fardelli di tessuti lungo le vie di campagna dove si recava ogni giorno facendosi precedere da una voce nasale che annunciava sempre prezzi rovinosi. A sera quel che rimaneva invenduto veniva issato fino al quarto piano per mezzo di una carrucola posta all’esterno della finestra. Allora le donne si affacciavano al terrazzino per godersi quel buffo spettacolo (Leo faceva da contropeso), seguivano con gli sguardi il fardello in aria finché s’infilava dentro la finestra. Il vecchio saliva le scale e Leo rimaneva in mezzo alla strada, senza fiato. Era debole, infermiccio, e il babbo lo faceva studiare per evitargli la vita disagevole del venditore ambulante e poi aveva l’ambizione di vederlo dottore: non avrebbe disdegnato le sue umili origini, pensava.
Ora una densa polvere si è levata dall’alto della casa in demolizione: n’è crollato un pezzo, forse senza che nessuno lo abbia provocato. Lo squarcio aperto appare con una fisonomia nuova. Si vedon solo i muri diroccati e le ossature delle travi sospese nel vuoto, dondolanti. Rimane solo in piedi la parte inferiore della scala dove risuonava lo scalpiccio di tanta gente, la scala buia dove luccicavan come due goccie di Iago gli occhi di Leo che avean l’acuto fascino della bestia adusata alle percosse e nondimeno scaltra al massimo grado. Quando lo avevo pensato la prima volta? Fu nell’ultima strada del ghetto, quella che dà sulla via del centro e dove, fra casa e casa, il Granduca faceva stendere un telone durante le processioni perché i figli d’Israele non contaminassero coi loro occhi profani l’immagine di Cristo.
C’era un gruppo di monelli che ponevano alcuni gattini neonati dentro un grosso sacco. Ogni tanto uno dei piccoli usciva dall’imboccatura mandando dei miagolii appena percettibili.
— Dentro, dentro! — urlava il più grande dei monelli riprendendo i fuggiaschi ed agitandoli per il collo due o tre volte in aria prima di riporli nel sacco. Un altro intanto portava una grossa pietra che avrebbe servito a farli precipitare nelle acque dei fossi che traversano la città.
Ma intanto un gattino nero con una macchia bianca in fronte era riuscito a fuggire e muoveva incerti passi verso di noi. — Questo — disse Leo — se riesco ad acciuffarlo, lo porto a casa mia.
— Non mi fuggirai — urlò invece un monello sciancato e, allungando il piede, posò la scarpa chiodata sul collo della bestiola. — Ti ho preso, dunque, ti ho preso — urlava come un forsennato.
Non potei urlargli: — Vigliacco! — Leo era divenuto di un pallore mortale. Gli occhi piccoli e neri gli si eran dilatati. Sembrava allucinato. E gli occhi del gatto, come i suoi, spremuti dalla scarpa ferrata, dilatati eppur vivi, umani, miti. Ci guardava supplice.
Ma non avevamo la forza di far qualcosa per salvare il piccolo gatto nero. La gente rideva. Ce ne andammo. C’era una macchia di sangue sul selciato.
« Malvagi, malvagi — cominciò a borbottare poco dopo Leo, ritornato in sé, ed aggiunse scrutandomi in volto: — E tu perché mi guardi a quel modo? A che pensi dunque? ». Non potevo mica rispondergli: «Penso che i tuoi occhi somigliano in un modo perfetto a quelli del gatto ucciso ». Ma non pianse. Tutto c’era in quegli occhi fuorché voglia di pianto: una mal contenuta umiltà, forse mista con odio.
Lo rividi dopo due giorni nella sinagoga durante la celebrazione della Pasqua ebraica. Stava assorto fra i vapori degli incensi e il suo sguardo sembrava vedesse cose più lontane delle bibbie arrotolate e dei minorah d’argento con le sette baluginanti fiaccole dei fratelli Maccabei. Dall’alto veniva il bisbiglio delle femmine occhieggianti dalle grate. Sovrastava il lamento del rabbino che, prosternato davanti ai sacri testi, faceva l’invocazione all’Oriente.
Lo avevo riconosciuto Leo, in mezzo ai suoi fratelli minori — gli uomini eran tutti aggruppati per famiglie — ma non ardii farmi riconoscere. Dopo la preghiera si allinearono tutti per ordine di età, ognuno con la mano dell’altro sulla spalla, per ricevere la benedizione del padre il quale la riceveva a sua volta dal genitore. Poi, dopo il canto dei salmi accompagnato dall’organo, si baciavano, si asciugavano gli occhi, gli occhi tutti eguali, come quelli di Leo.
Con un fragore sordo anche la scala è crollata e le ossature son precipitate. La gente da lontano osserva impassibile. Non fa pena, pare, veder morire cosi le vecchie case.
E Leo? Partì per la Tunisia dove aveva dei parenti ricchi. Tornò per la guerra, ma non lo vidi mai. Seppi ch’era scomparso a Zagora durante un assalto. E là lo cercai inutilmente dopo l’avanzata fra gl’intrichi di filo spinoso e i trinceramenti sconvolti. Avrà avuto, credo, una sepoltura fra tanti sconosciuti. Mi sarebbe piaciuto stare al suo fianco e attinger coraggio dai suoi occhi durante le notti di tregua, nella tacita lotta fra l’uomo irriconoscibile, fangoso, e l’infinito del cielo.
Ma in cielo Leo salì senza artigliare le nubi.
Riccardo Marchi.
Collezione: Diorama 18.11.31
Etichette: Riccardo Marchi
Citazione: Riccardo Marchi, “Vecchio ghetto,” Diorama Letterario, ultimo accesso il 21 novembre 2024, https://dioramagdp.unito.it/items/show/213.