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Titolo: Primizie del nuovo libro di Gabriele d’Annunzio. Esce oggi: "Cento e cento e cento e cento pagine del Libro Segreto di Gabriele d’Annunzio tentato di morire " La nuova opera autobiografica del Poeta Soldato

Autore: Gabriele d'Annunzio

Data: 1935-06-25

Identificatore: 1935_248

Testo: Primizie del nuovo libro di Gabriele d’Annunzio
Esce oggi: «Cento e cento e cento e cento pagine del Libro Segreto di Gabriele d’Annunzio tentato di morire» - La nuova opera autobiografica del Poeta Soldato - Grafia e pause ispirate da vecchi elzeviri latini - Sogni di poesia e volontà d’azione - Ricordi dei giorni di guerra
Esce oggi in tutta Italia la nuovissima opera di Gabriele d’Annunzio che s’intitola CENTO E CENTO E CENTO E CENTO PAGINE DEL LIBRO SEGRETO DI GABRIELE D’ANNUNZIO TENTATO DI MORIRE.
Questo libro autobiografico del nostro grande Poeta è presentato dalla Casa Mondadori in magnifica veste (pag. 584) al prezzo di lire 18; la stessa Casa ha curato poi un’edizione distinta legata in stoffa Fortuny al prezzo di lire 50.
La Gazzetta del Popolo deve all’amicizia del Poeta, della quale è fiera d’aver avuto in ogni tempo tante preziose testimonianze, e alla cortesia dell’editore Mondadori il privilegio di poter pubblicare un’importante primizia della nuova opera di Gabriele d’Annunzio; e a nome dei suoi lettori rivolge a Lui, in questo giorno fausto della Sua sempre vigile e giovanile attività di scrittore, un pensiero di devozione e di riconoscenza.
Come i lettori possono agevolmente constatare, Gabriele d’Annunzio ha dedicato al volume assidue cure, occupandosi dei particolari grafici e ortografici. Essi noteranno come, riprendendo un antico sistema in uso in taluni elzeviri latini, il Poeta abbia usato le lettere maiuscole solo nei capoversi; sopprimendole in ogni altro luogo dopo il punto fermo o i due punti, seguiti da uno spazio per indicare la pausa.
Le CENTO E CENTO E CENTO E CENTO PAGINE, presentate giorni fa al Duce, vanno da oggi tra gli Italiani e tra quanti nel mondo amano ed ammirano la figura, l’azione e l’opera di Gabriele d’Annunzio, suscitando il medesimo interesse e la medesima ammirazione con cui sono sempre stati accolti i libri di questo grande Latino, che fin dalla giovinezza pensosa accendeva alla immagine immortale della Gloria le faci della Sua poesia.
PADOVA oggi sembra deserta, qua e là diroccata dalle bombe, inerte in una luce glaciale.
Sono più tranquillo. il mio dolore s’indurisce, si tempra. non ha più nulla d’informe, d’inquieto, di torbido.
Ha preso la mia stessa forma, s’è scolpito a mia simiglianza. mi consolida, mi rafforza.
Fino a stamani qualche favilla ingannevole mi scoppiava nel cuore, di tratto in tratto, all’improvviso; e mi dava un sussulto di gioia sconsiderata.
Illesi, e prigionieri. Feriti, e prigionieri.
L’onta della prigionia. la gloria della morte.
Rivedo l’occhio felino di Maurizio Pagliano, verdastro, fosforescente, con l’iride tagliata dalla palpebra socchiusa.
Rivedo la bocca insolente di Luigi Gori, la marezzatura de’ suoi capelli biondi all’apice della fronte sfrontata, la sua baldanza di giovine partigiano fiorentino del tempo di Buondelmonte, la sua maniera di piantarsi in su le nervute gambe e di porre contra i fianchi snelli in ansa le sue lunghe mani inanellate.
Non posso imaginare quella fierezza rattristata e raumiliata nella prigionia.
Non so che darei per divinare la lor fine, per conoscere l'ultimo lor momento, per sapere in che modo la loro giovinezza sublime s’è spenta ne' lor volti nudi sotto le loro maschere di volatori.
Ora io credo che sono morti.
Nessuna altra notizia. nessuna risposta del nemico ai messaggi lanciati. nessun indizio nuovo.
Tutto è silenzio. essi sono ridivenuti silenziosi come quando erano dietro di me deliberato di morire, nella fusta, la notte di Cattaro.
Già otto de' miei compagni di Cattaro sono perduti. i migliori.
Gli altri sorridono aspettando la loro sorte.
Son io dannato a sopravvivere?
Ho chiesto al mio capo licenza di intraprendere la scorreria marina.
Dedico questa azione temeraria ai miei due giovani fratelli.
Viventi me l'avrebbero invidiata. morti l'accetteranno come la sola offerta funebre degna d'amendue.
È un'impresa che di audacia avanza quella di Cattaro. disperatissima.
Riuscirà. si compirà.
Come dicevo dianzi al mio colonnello Moizo, la temerità non è se non una faccia della prudenza.
Fra tre giorni posso essere in fondo al Carnaro, o rigettato sopra una spiaggia di Veglia, di Cherso, dell’Istria orientale.
fra tre giorni posso alfine essere anch'io, come lo Shelley della mia adolescenza, qualcosa di ricco e di strano, « something rich and strange », o un livido cadavere introvabile, in una casacca di pelle, come Roberto Prunas.
Ma quanto la vita è oggi misteriosa e musicale!
Vado con Nerissa a visitare i luoghi colpiti dalle bombe delle squadriglie nemiche.
Fa freddo. il pomeriggio è cristallino sopra le vecchie case; l’ombra è violetta e cerulea sotto i vecchi portici. le strade son quasi deserte. a ogni svolto è l'imminenza di un’apparizione.
Nerissa ha il suo abito d’infermiera, la sua mitra azzurra con la croce rossa, i capelli nascosti da una benda bianca.
Il suo viso è oggi più patetico che mah un viso da Maria accostato a quello del Cristo esanime, in una Deposizione di Croce della scuola mantegnesca.
Di tratto in tratto ella volge verso, me i suoi occhi più chiari di due opali, con una bontà così tenera che tutte le linee di quel volto potente ne sono come cancellate. e ogni volta mi palpita a sommo del petto una bellezza ambigua.
Siamo davanti il palagio di Ezelino. una gran fenditura attraversa il mattone, ma sembra una fenditura dei secoli discordi. qualche ciuffo d'erba vi cresce. abbiamo i piedi su’ vetri della casupola che sta di fronte. la fucina d'un fabbro è sotto il palagio. tre uomini attorniano l’incudine, e battono il ferro incandescente.
Cupa è la fucina. ombre ritmiche sono gli uomini, non vedo se non le braccia rischiarate dal riflesso della spranga torrida.
Restiamo lungamente a guardare, quasi rapiti. non v’è forse atto umano più insigne di quello che batte il ferro sopra l’incudine. forse è più bello che l'atto dell'arciere dall’arco teso contro il segno. l’uno e l’altro non vivono in me come i muscoli delle mie braccia, come gli emblemi delle mie fortune?
Da più tempo non avevo veduto una fucina operante, nasce in me uno stupore vergine, come in uno spirito primitivo.
Si arrossa e si torce il ferro; resiste e sfavilla. miro colui che l’abbranca con la tenaglia, lo tien fermo, lo doma. è un giovinetto chiomoso e fuligginoso. tinto il sudore gli cola come sangue. il bianco degli occhi m’attira, quasi di
fiera nel serraglio. con un baleno bieco mi percote. mi volgo. esco. traendo Nerissa per mano.
Ce ne andiamo giù per il portico a malincuore. entriamo in un teatro squarciato.
Luce tetra su i rottami gessosi e su le poltrone riverse.
Un silenzio senza grandezza occupa la platea, dando imagine di una folla atterrita.
Il palco scenico è quasi buio, tra le alte quinte. siamo attratti nella finzione. assistiamo a una rappresentazione tacita, a una invenzione mimica. il silenzio soffre come nelle pause della tragedia, fra masse enormi d'ombra verticali come nella scena di « Fedra » disegnata da me prima che dal novatore britanno.
« Eleonora. Ghisola. Ghisolabella. »
Non so se il nome suoni nel mio soffio e se impallidite sieno le mie labbra come tutta la mia anima è smorta.
So che Nerissa trema. prendo le sue mani. le mie labbra sono all’altezza di quella bocca forte e dolorosa.
Sembra che il destino imponga un atto ambiguo. Ma come un tale atto può esser compreso e non male inteso in quel punto? ho paura. batto le ciglia per respingere l'allucinazione. esito. abbandono le mani tremanti.
Eppure in quell’attimo di esitanza passa un’onda quasi voluttuosa. è un’onda simile a un’ombra fluida, tra corpo e corpo, tra silenzio e silenzio.
Nerissa è casta come una clarissa. conosco la sua storia di martire coniugale. conosco la sua lotta severa di ogni giorno. è in perpetua vigilanza. i suoi occhi di « ferro nuovo » custodiscono la sua carne sediziosa.
Nell'abito di « crocerossina » ha non so che odore monacale, non so che profumo di clausura.
Mi piace il suo petto largo e profondo, il petto della musa Calliope, o quello della Santa Barbara di Iacomo Palma.
Una volta mi ha preso le mani e le ha premute sul suo petto, ansando, palpitando, ma senza impurità.
Un che di sonoro: la cassa armonica del cuore melodioso.
Abbandoniamo la notte tragica di fra le quinte. usciamo di nuovo nella strada. c’incamminiamo verso la Chiesa del Santo.
V’è un sentore di rosa nel freddo cielo. le fronti delle case sembrano arrossire come il viso della creatura sensibile a cui taluno mormori una parola che niun altro possa intendere.
Sentiamo sul nostro capo un chiarore miracoloso; e sentiamo che il vertice del miracolo è certo nella piazza del Santo, sopra le cupole.
Ci affrettiamo con la speranza di giungere prima che il prodigio si spenga o si affievolisca. la via ci par lunga, troppo lunga.
Il sentimento della pausa — là nella sosta scenica — perdura in me, quasi cullato dal ritmo del mio passo.
Una donna mi parlò d'una specie di languore indistinto che le tremolava alla sommità del petto, tra la gola e le mammelle, in certi giorni di primavera quando ella era seduta davanti allo specchio e la pettinatrice le maneggiava i capelli con una levità quasi carezzevole.
Dico questo a Nerissa.
Risponde: « sì, conosco, so. »
Anche la sua fronte si fa rosea come quella delle case che son per patire la minaccia notturna.
Non si arriva mai. - siamo ansietati, nel linguaggio di Catarina senese. la luce crepuscolare si muta. perde ogni calore. è di fredda perla come dev’essere il ginocchio di Nerissa.
Le dico: « è di perla. »
« Che cosa? » risponde.
« Non il cielo. »
« Che cosa? »
Taccio. la prendo per la mano. ella non me la concede. dice: « fra poco ci siamo. »
La riprendo per la mano. godo di lei stranamente, in una comunione che forse è inversione.
Ella ripete: « fra poco. »
È come quando nell’amore si attende la gioia suprema, il gioioso spasimo; e l’un amante avverte l’altra per insieme gioire.
Una solitaria massa nella solitudine del vespro, una somma di bellezza isolata in un silenzio cilestro di ghiacciaio, un’architettura di anelito e di preghiera in uno spazio solenne come un divieto dell'Alto.
« Il Santo. »
Camminiamo su lastre di madreperla. Intorno alla piazza le case sono accosciate come le donne orientali nel quadro di Gentile Bellini.
Passiamo sotto la base della statua equestre assente. è andato alla guerra il Gattamelata?
Su la base nuda s’alza una colonna di cielo fino al zenit, con un capitello di stelle lassù, con un capitello di costellazioni innominate.
Ci accostiamo alla porta del Santo con un passo di gente furtiva. la chiesa è aperta?
È chiusa. il battente non cede.
Davanti alla porta laterale, apriamo l’uscio di legno dov’è il fóro che vi fece l’altra notte una scheggia di bomba.
M’inginocchio nell’ombra per cercare il fóro che ha passato anche il bronzo. lo trovo. ci ficco il dito. brancolando la mano di Nerissa si accosta alla mia. sono turbato. mi viene nella memoria un versetto del Cantico de’ Cantici.
Voluttà della tentazione e della repulsa, in un attimo, modo segreto di possedere una donna bramata senza violarla. musicalità dei minimi gesti. complicità delle cose.
modulazione del desiderio attenuato.
Camminiamo lungo il fianco della chiesa, verso il chiostro, tenendoci per mano.
La piazza è deserta. le case pregano intorno inginocchiate. qualche zaffiro pusillo s’accende lungo i portici bassi.
Ci soffermiamo contro i cancelli. involontariamente fiuto l’odore di un giardino che non odora. penso, non so perché, alle violette che cercai una sera nel prato pisano, tra il Battistero e il Camposanto, dopo un acquazzone di marzo.
Ora Nerissa mi conduce verso la sua casa che è calda, dove una sola stanza è calda: la sua.
Entriamo nell’androne di un palagio gotico. la scala maggiore s’illumina, ma conduce all’appartamento della madre.
Saliamo per una scala piccola, passiamo per un corridoio che sembra condurre alla dovuta cella.
Un misto di sacro e di profano.
Un vassoio d’argento sopra un canterano veneziano.
Un candelabro d’argento da cero cristiano.
L’odore dell’ireos come nella farmacia d’un monastero toscano.
Apre la porta, stretta una fante che ha l’aria d’una suora conversa.
Passiamo per la porta stretta.
M’invade un senso di piacere subitaneo nella stanza calda parata di damasco rosso ornata d’imagini e di libri odorosa di giunchiglie.
Dietro le grandi cortine rosse è il letto: un letto stretto di monaca terziaria, un capezzale di castità.
Tentazione e rinunzia. Assaporo una delizia nova.
Seduti sul bel canapè dell’epoca di Giorgio Baffo, innanzi a una tavoletta di lacca ove son posati i miei libri più squisiti, prendiamo un caffè che ha il sapore del Floriàn. facciamo un’ora di conversazione vivida, che somiglia una frode di amore.
La sento godere della mia voce come d’una carezza sapiente.
A un tratto la punta di un rimorso mi rompe l’incantesimo facondo. ho promesso di andare a salutare Egidio Carta, il comandante, prima della mensa.
Mi accommiato dalla vita fallace e dalla musica dolosa.
Esco all’aria gelida, incerto come un cieco, vedendo nel buio i soli circoli fiammeggianti le comete i satelliti le nebulose del mio occhio ferito. mi soffermo. poi muovo i primi passi a tentoni.
Egidio Carta dolorosamente accoglie il mio dolore che è rinato. quasi con avidità parliamo dei due giovani compagni a cui il nostro amore sembra dare tutti i rilievi che nella passione di superar noi stessi avevamo trascurati.
Egli mi racconta che, trovandosi sul campo di San Pelagio dove io non era ancor giunto da Venezia per un ritardo causato dalla mia novissima Squadra navale, notò qualcosa dinsolito nell’aspetto dei due piloti. parevano assorti e tristi.
ripetevano: « attendiamolo ancóra: qualche minuto ancóra. » infine salirono nel glorioso velivolo con una specie di svogliatezza e di lentezza non consuete, essi che solevano ogni volta balzare d’impeto al posto di guerra!
Mi ricordo di quel che mi diceva un ufficiale francese in una trincea dell’ Argonne: — negli attimi che precedevano l’assalto distinguere egli al primo sguardo i « designati », quelli che balzavano innanzi per non più ritornare.
Confido al comandante l’azione che voglio dedicare alla memoria de’ miei due piloti.
Egli è commosso; e mi prende ambo le mani senza parlare.
È un piccolo sardo, nervoso e duro, un soldato della razza migliore, un poco ombroso ma di coscienza diritta e di coraggio integerrimo. amo in lui tutta l’isola che m’è cara, e la fedeltà di Rudu.
Mi accompagna fin giù alla porta di strada, con un augurio sincero che m’è come l’aroma d'un sorso di Oliena.
Passo il resto della sera con le ombre dei miei morti. non posso mangiare, tanto mi turbano i ricordi della nostra mensa icaria. e le notti di Pola, e i giorni igniti del cielo carsico, e la sosta a Gioia del Colle, e il miracolo di Cattaro, e la tristezza del ritorno, e l’angoscia subitanea della disfatta, e la speranza rinata dalla volontà di dedizione, e l’ansia violenta de’ nuovi disegni per obbedire al comando inscritto nella nostra prua: nulla via invia.
Al combattente dagli occhi asciutti non è lecito piangere. neppure se gli resta un occhio solo?
Copyright by Gabriele d’Annunzio. Riproduzione vietata.
Il frontespizio del libro
Il Comandante Gabriele d’Annunzio s’accinge al volo su Vienna
La pagina 174 del manoscritto.
La pagina 191 del manoscritto.
Una bozza impaginata del « Libro Segreto » con varianti dell’Autore.

File: PDF, TESTO

Collezione: Diorama 25.06.35

Citazione: Gabriele d'Annunzio, “Primizie del nuovo libro di Gabriele d’Annunzio. Esce oggi: "Cento e cento e cento e cento pagine del Libro Segreto di Gabriele d’Annunzio tentato di morire " La nuova opera autobiografica del Poeta Soldato,” Diorama Letterario, ultimo accesso il 21 novembre 2024, https://dioramagdp.unito.it/items/show/2157.