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Titolo: Il capostazione

Autore: Riccardo Marchi

Data: 1936-02-11

Identificatore: 1936_39

Testo: Il capostazione
I miei sogni, generalmente, non mi trasportano molto lontano, nei regni colorati della fantasia: sogno cose aderenti alla terra, quasi sempre quello che avrei potuto essere e non sono stato; salgo, insomma, appena pochi gradini sopra quello dove si è fermata la mia esistenza tapina. Ho sognato recentemente di essere il capostazione di una città di poche diecine di migliaia di abitanti, al centro di un gran nodo ferroviario che i direttissimi degnano appena di tre minuti di fermata. Passeggiavo imponente e cerimonioso all’ombra della grande tettoia. Se un viaggiatore in attesa mi avvicinava per domandarmi: — Quanto ritardo ha il 1251? Per Roma, scusi, quale binario? — lo faceva con aria titubante, intimidito dalla mia aria autorevole, dagli sgargianti righi d’oro del mio berretto, dalle falde svolazzanti della finanziera. Mi limitavo a rispondere con un gesto che additava le tabelle orarie o il personale subalterno più adatto di me per dare spiegazioni.
Ma non era l’autorità conferitami dal grado e dalle funzioni a inorgoglirmi, né la voluttà, tante volte pregustata, di sapermi preposto alla direzione del traffico che si stava svolgendo lungo gli intricati binari, con la facoltà a me concessa di dare ordini ai dipendenti dislocati lungo le cantoniere o sui palchi di sottocomando dei posti di blocco. Non si trattava neppure di orgoglio. Mi sentivo stranamente preoccupato. Le vite di centinaia di esseri, che si trovavano in viaggio nei pressi della mia stazione o che si accingevano a partirne, erano, in certo qual modo, in mio possesso. Non trepidavo affatto dubitando in un possibile disordine nell’impeccabile congegno dei servizi. Ma un pensiero molesto si era, poco a poco, insinuato nella mia testa, allo stesso modo che un sasso, gettato dalla mano incauta del figlio di un casellante, va a posarsi pericolosamente dentro una rotaia.
Il pensiero era bizzarro, non malvagio: mi riportava, in sogno si capisce, ad una idea di disordine in contrasto aperto con quella di ordine che informa ogni atto della mia vita borghese e mi fa comparire senza debiti al cospetto delle leggi degli uomini e della coscienza. Avrei indirizzato un treno in un binario che non era il consueto; avrei arenato un rapido in un binario morto per dare la precedenza ad un merci; avrei scompigliato, senza provocare deragliamenti o scontri, il servizio ferroviario, suscitando solo incresciosi disappunti nei viaggiatori, ritardi inesplicabili, stupori e smarrimenti: lo scompiglio insomma di tutti coloro che avevano, in conformità degli orari, predisposto l’ordine materiale e morale della loro giornata. Ne avrebbero sofferto gli uomini di affari come quelli che erano diretti a un appuntamento amoroso, i turisti frettolosi e coloro che attendono sui marciapiedi l’arrivo di qualche persona cara. Il mio giuoco sarebbe durato pochi attimi soli, passati i quali il servizio avrebbe ripreso come prima. Ma quell’attimo sarebbe bastato per farmi godere — qui c’entrava sul serio un poco di perversità — dello smarrimento visibile nei volti dei viaggiatori e di coloro che li stavano attendendo. Sarebbe avvenuto in loro come quando, all’inizio di un temporale, scoppia la prima folgore, imprevedutamente, e, con la rapidità dello stesso baleno, un improvviso terrore s’impossessa di tutti, come se il mondo stesse per scomparire, e noi con esso, coi nostri interessi meschini.
Pensieri troppo gravi per un uomo che indossa una finanziera dai bottoni dorati, decorata alle falde con le ruote fornite delle alette sempre d’oro, più pretenziose, queste ultime, di quelle della sua fantasia... quando non sogna e adempie con onestà alle sue modeste mansioni di funzionario. A me, nel sogno, quel paludamento cominciava ad apparire meschino e pesante. Me lo sarei strappato volentieri di dosso. Non si veste uno sulla cui testa pesano tante responsabilità, e che può persino concepire pensieri tanto orgogliosi, allo stesso modo del maggiordomo di un grande albergo. Quasi che la sua funzione fosse quella di riverire i convogli alla fermata, e non trattarli da padrone, come ordegni obbedienti. E intanto nessuno si curava di me. Il movimento dei treni si svolgeva come se io non esistessi, o fossi una semplice figura decorativa. Passeggeri scendevano, altri salivano; gli incontri avvenivano sui marciapiedi nel modo più pittoresco e regolare. La vita morale e materiale di ognuno avrebbe continuato a svolgersi con ritmo consueto, così come avviene da quando è costituito il consorzio civile, senza ch’io potessi modificarne non dico la sostanza, ma neppure le apparenze. Treni che arrivano, treni che partono ed io al centro: un birillo ben decorato e impotente. Mi veniva da piangere osservando i lucidi binari, abbacinanti, ogni volta di più, quando vi passava un convoglio fragoroso.
Una mano mi scosse proprio nell’istante in cui il nodo alla gola stava per sciogliersi in pianto sul serio. Chi era? L’ispettore capo, forse, che mi avrebbe rimproverato qualche grossa papera investendomi con una angosciosa minaccia di retrocessione? No: era giorno quasi e l’alba dorata mi riportava, senza l’aiuto delle alette che decorano la montura dei capistazione, alle mie umili funzioni giornaliere: molti gradini più giù, nella mia esistenza tapina ma contenta: sono, infatti, appena un manovale; sì, un umile bracciante del piazzale.
Riccardo Marchi.

File: PDF, TESTO

Collezione: Diorama 11.02.36

Citazione: Riccardo Marchi, “Il capostazione,” Diorama Letterario, ultimo accesso il 21 novembre 2024, https://dioramagdp.unito.it/items/show/2255.