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Titolo: Verga e gli scrittori catanesi

Autore: Giuseppe Villaroel

Data: 1931-12-02

Identificatore: 226

Testo: RICORDI DELL’OTTOCENTO

Verga e gli scrittori catanesi

Negli ultimi anni della loro vita gli epigoni del verismo italiano: Verga, Capuana, De Roberto, tornarono alla città natale. Diverse furono le ragioni che ricondussero all’ovile gli scrittori catanesi che avevano affermato la loro personalità e la loro arte nei grandi centri del continente e soprattutto a Milano. Luigi Capuana aveva ottenuto una cattedra di stilistica all’Università di Catania; Giovanni Verga era stato chiamato in patria dalla morte del fratello che lasciava alla tutela dello scrittore i due figli minori e la cura di alcuni possedimenti nel territorio di Vizzini; Federico De Roberto, che veniva, ogni anno, a ritrovare la madre, attratto forse dall'amicizia del Verga, diradando sempre più i suoi soggiorni lombardi, aveva finito, a poco a poco, per fermarsi anche lui in famiglia.

Allora Catania parve acquistare un tono di centro letterario che non aveva mai avuto con sì forti accenti. Era tornato, da tempo, anche, dalla dimora fiorentina, Mario Rapisardi e s’era rinchiuso nella sua casa del Borgo, amareggiato e sdegnoso per le. diatribe bolognesi.

Nel campo dialettale iniziava già le sue battaglie poetiche e giornalistiche Nino Martoglio e, nel teatro, all’ombra dell’arte impetuosa e drammatica di Giovanni Grasso, reduce dai trionfi europei, cominciava ad affermarsi, con forte rilievo di contrasti, la comicità mimica ed istintiva di Angelo Musco.

Mai, credo, città abbia ospitato, nello stesso giro di tempo, tanto numero di celebrità natali.

Ma da un così folto gruppo di letterati, di artisti e di scrittori non sorse alcun cenacolo. Tranne il Verga e il De Roberto, legati da una vera fraternità spirituale, nonostante il distacco degli anni (il De Roberto era di quasi un ventennio più giovane del Verga) gli altri vivevano in buoni rapporti; ma lontani fra loro;

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Nino Martoglio aveva fondato un giornale umoristico: il D’Artagnian; ed era riuscito a creare, attorno al suo foglio, un movimento popolaresco, per le gare poetiche che vi si svolgevano e per una certa animosità satirica che toccava sul vivo molti interessi e molte personalità cittadine. Spirito battagliero e ardente, il Martoglio affrontava le situazioni più difficili suscitando, a volte, odii e dissensi. E, d'altro canto, ponendosi in difesa di uomini e idee ch’egli stimava meritevoli di sostegno, simile al moschettiere che aveva dato il nome al suo ebdomadario, dovette difendere, spesso, con le armi le sue ragioni e col ferro riparare i suoi torti.

Questo carattere romantico, cavalleresco, ironico ebbero, di tempo in tempo, le sue poesie vernacole che vanno dalla caricatura folcloristica ai canti d’amore, dalla satira dei costumi e delle superstizioni locali alla vita del popolo.

Ma Catania era, allora, un paese dai rigidi costumi e dalle idee ortodosse e, per un uomo che urtava contro questi spigoli, la dimora diveniva insostenibile. In seguito ad un amore contrastato, che lo trascinò, ancora una volta, sulla pedana, il Martoglio dovette abbandonare la sua terra. E fu la fortuna. Dedicatosi al teatro dialettale creò quei piccoli gioielli della commedia siciliana che ancora oggi rappresentano i pezzi di sostegno di tutto il repertorio muschiano.

La città nativa, che gli era stata ostile nelle sue prime esperienze artistiche e giornalistiche, gli fu infausta, nel suo breve ritorno: gli si ammalò il figliuolo e, costretto a farlo ricoverare all’ospedale, passava anch’egli le notti accanto all’infermo. Era stata, in quei mesi, aggiunta una nuova ala all’edifizio. Il Martoglio, imboccato, un mattino, al buio, distrattamente, il corridoio delle corsie, aperse la porta che immetteva nella tromba dell’ascensore, ancora in costruzione, e, credendo di uscire all’aperto, cadde nel precipizio e, datovi del capra, vi rimase cadavere sul colpo.

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Da questo momento in poi — stranissimo destino — quasi tutti gli scrittori e gli artisti dell’ottocento catanese soccombono per morte improvvisa: Capuana, Verga, De Roberto, Grasso. Rapisardi, no. Rapisardi si estinse lentamente ed ebbe la coscienza della sua morte. Tanta coscienza che, se è vera la voce che corse, si spense recitando a sé i versi del Tasso per Argante: « morì qual visse »... ecc. Poi, fattasi porgere la spregiata creta, « Dite — biascicò — ai miei critici che mingo sulla loro testa ». E morì.

La cosa fu ripetuta come un atto di fierezza; ma a noi giovani parve non vera e indegna di un poeta, per quanto non dissimile da certi atteggiamenti del Rapisardi dell'Atlantide. Comunque ci spiacque la diceria perché avremmo voluto coronata da parole più alte una vita di severi studi e di nobile operosità intellettuale.

Avevamo avvicinato l’uomo, pochi giorni prima della fine, a casa sua. Alto, chiuso nel suo abito a lutto, con babbucce di seta scura, la chioma grigia, ormai rada e dispersa, gli occhi affossati e lucidi entro l’ombra delle sopracciglia, il nero berretto goliardico in testa, il cravattone a svolazzi, ci parve, nella sua dispettosa statura, stanco e fioco. Ma, bonario e accogliente, ci sorrise, e ci parlò per il primo. Ci disse che aveva ricevuto la visita di Marinetti e ci mostrò, sopra il tavolo, l’antologia dei poeti futuristi, con la dedica del dinamico poeta.

Dissentiva, naturalmente, da questa nuova scuola e trovava, secondo il suo punto di vista, inattuabile, ai fini di un’arte duratura, il programma. Ma aveva gradito molto il pensiero di Marinetti e riconosceva in lui e nei suoi seguaci un forte talento polemico.

Si esprimeva, a riprese, con gesti ieratici e lenti. « Tutto ciò sembra nuovo ed è vecchio — esclamava —, sembra nuovo ed è vecchio. Il passo di corsa? Lo cantò Omero con Achille piè veloce; lo cantò Pindaro. Il disprezzo della donna? Lo cantò Archiloco; lo trattò la letteratura anti-femminista francese; lo sfruttò Boccaccio nel « Labirinto d'amore ». Il pugno? Lo cantò Dante: « col pugno gli percosse l’epa croia ». Che volete di più? ».

Il Rapisardi si riferiva al primo proclama futurista ch’era stato lanciato in quel giro di tempo.

Non fu taciuto nemmeno del Carducci, Disse che gli perdonava tutto: coi morti è vano ogni rancore. Ma confessò che l'aveva odiato, in molti momenti, sino all’esasperazione e che un giorno, incontratolo a Firenze, gli venne l’impulso di saltargli addosso.

— Fu un attimo, aggiunse, e mi parve che gli occhi mi sanguinassero. Per fortuna un amico, inconsapevolmente, mi fermò in tempo. Vidi il Carducci procedere oltre: grave, oscuro, tarchiato. E ritornai cosciente di me, atterrito dei miei pensieri.

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Il giorno stesso in cui il Poeta spirò la città fu investita da un violento uragano. Verso sera le raffiche del vento divennero meno rabbiose; tuttavia tagliavano le strade e fishiavano sotto gli usci. Il popolino, che aveva guardato l’autore del « Lucifero » con sospetto di magia, disse che la bufera era stata scatenata dai diavoli, in lotta, per impadronirsi dell’anima del poeta ateo. Questa leggenda vive tuttora nei quartieri alti del sobborgo e qualcuno ricorda di avere scorto una colonna di fumo denso salire dalla casa del Rapisardi e sperdersi nel cielo, con ali e forma di demonio fuggente. Così la fantasia della plebe. Ma la cittadinanza più eletta tributò grandiosi funerali al cantore di Giobbe e il feretro del poeta fu portato a spalle dagli studenti universitari e seguito da una folla compatta. Si vide, allora, nel corteo, la berlina municipale che, dal giorno in cui era apparsa dietro la reduce salma di Vincenzo Bellini, non aveva, per nessun altro illustre estinto (dicono), varcato la corte del palazzo di città.

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Luigi Capuana girava, in quell’epoca, vestito di grigio, con cappello cenere: sereno e panciuto. Dalla faccia grassa, sempre rasa, spiovevano, con grazia signorile, i baffi bianchi e curati. Aveva occhi buoni e dolci e un fare quasi paterno. Ciò gli conciliava l’amore dei giovani.

Rivedo lo scrittore curvo sullo studiolo ordinato dove i libri, le carte, gli oggetti si ritrovavano, sempre, al loro posto. Si intuiva la cura segreta di una donna: si sentiva che tutta questa precisione non era dovuta alla pazienza dello scrittore, per quanto egli fosse un uomo metodico e regolatissimo. Adelaide Bernardini vegliava, nascosta, le fatiche del marito.

Nel centro della stanza: un gran tavolo con gli omaggi, le riviste, i giornali. In giro, lungo le pareti, alcune librerie. In un angolo: il busto in bronzo del Maestro. In un altro angolo: alcune poltrone basse e soffici e un tavolinetto con un servizio per fumo. In un armadio a vetri: (se non ricordo male) i manoscritti dei « Malavoglia », del « Piacere » e dei « Viceré », offerti dagli autori all’amico e al critico; i manoscritti, cioè, dei tre libri più celebrati in quel tempo: un capolavoro e due romanzi ancora vivi. Rivedo la calligrafia lunga, volante e sottile di Giovanni Verga, lo stampatello rotondo di Federico De Roberto, la scrittura vigorosa, chiara, ampia, quasi incisa sulla carta, di Gabriele d’Annunzio. E, dalle grandi finestre, un gran sole, un cielo violento; e sul cielo, in fondo, la piramide azzurra dell’Etna, digradante verso il mare coi suoi boschi stinti dalla lontananza, con le sue colline aspre e rugose, con le sue ville bianche e leggere, dietro un velo d’aria mobilissimo e lucente.

Giuseppe Villaroel.

File: PDF, TESTO

Collezione: Diorama 02.12.31

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Citazione: Giuseppe Villaroel, “Verga e gli scrittori catanesi,” Diorama Letterario, ultimo accesso il 17 maggio 2024, https://dioramagdp.unito.it/items/show/226.