Calata dal cielo (dettagli)
Titolo: Calata dal cielo
Autore: Bruno Barilli
Data: 1936-04-01
Identificatore: 1936_46
Testo:
Calata dal cielo
Il volo da Roma a Vienna non dura più di sei ore.
L’aeroplano è il mezzo più rapido per spostarsi, e anche il più libero: il più spiccio.
Uno strattone all’elica e si decolla.
Le vie del cielo sono sgombre — non s’incontra mai nessuno.
Lassù, salvezza, tregua, riposo totale.
Una certa lontananza verticale ci sottrae alla diuturna e faticosa corvée di abitanti classificati della terra, così, man mano come la benzina sottrae l’aeroplano alle leggi della gravità.
Varchiamo pulitamente le frontiere — e a nostra insaputa. L’aria non reca traccia alcuna di emblemi nazionali.
Ascensione di paradiso fra nuvole di carburante.
A tremila metri non ci raggiungerebbe una cannonata e neppure l’ufficiale del censimento.
Siamo dunque anime perdute per la lunga lista umana.
L’apparecchio è una gabbia d’isolamento, una prigione balistica.
La partenza è un ratto.
La prigione con tutti i suoi detenuti evade all’improvviso, inutilmente inseguita dai guardiani dell’aereoporto che sembrano gridare: ferma, ferma!
Troppo tardi — i fuggiaschi son già fuori portata.
L’apparecchio attacca la parabola aerea come un bolide.
I primi ostacoli edilizi sembrano titubare e tirarsi da un lato dinanzi a quello slancio.
Chi c’è dentro ha l’impressione guardando giù che la zona sottostante retroceda maestosamente, ondeggi, sprofondi, vada a rotoli, coli a picco addirittura, traendo seco quelle comiche figure di inseguitori che in uno scorcio irritato s’appiattano e van diventando tonde e irrigidite al suolo come tanti funghi, e le sue folle industriali, folle di ciclisti del Mezzodì che finiscono per far macchia immobile punteggiando le vie come un cimitero di formiche.
Nessun rumore nella pura atmosfera, nessun rumore che non sia il ronzio basso del motore — si indovina all’esterno il silenzio intatto delle vacuità infinite.
L’apparecchio è una gabbia d’isolamento che balla col vento, e sembra appesa al cielo.
Lieve e solitaria la terra diventa a poco a poco perpendicolare e celeste come ogni cosa nello spazio astronomico.
Così piccoli ormai in vetta all’infinito, siamo affidati a un calcolo.
La nostra posizione è esatta. Siamo un punto matematico, un punto mobile nel moto universale.
Siamo un’idea di Giulio Verne. Un’idea che segue il suo itinerario.
Senza salti iperbolici eccoci a far l’altalena tra la terra e la luna.
In grembo a questa abissale serenità, nulla di più precario e positivo insieme.
L’emancipazione, l’autonomia, è completa, possediamo la chiave di volta del creato.
Che distacco dal vecchio mondo — rotti i ceppi terreni — elusa quella legge d’aderenza che ci tien vincolati alla terra dal tempo dei tempi, voliamo con sicurezza sul vuoto d’una realtà formidabile.
* * *
L’emozione di questo momento non è paragonabile a quella romantica e buffa che ci può dare il pallone frenato, la giostra aerea, il trampolino volante od alcun altro feerico trastullo di pomeriggio festivo.
Intorno a noi non ci sono gli spari, i fuochi, che ci fanno strillare di gioia e di paura, la musica degli organetti, le ragazze innamorate, non ci son le baracche, i circhi e i carrozzoni e l’ebrietà d’una fiera suburbana.
Qui tra un serafico diluvio di silenzi, in una eternità senza ombre, abbiamo il senso freddo della direzione inflessibile, della puntualità oraria, e non pensiamo alla morte.
Proviamo soltanto un benessere placido, leggero e una sonnolenza infantile che riposa su una certezza granitica — la certezza di arrivare.
L’arrivo costituisce, ohimè, l’unico pericolo, unico e inevitabile della navigazione aerea: essendo gli altri pericoli, ai nostri dì, sempre più improbabili.
Il soggiorno nell’aria è purtroppo temporaneo — e le sue ore sono contate.
Bisognerà abbassarsi, di quota in quota, ridurre la velocità, e muovere a ruota di falco, incontro al nostro pianeta.
Durante la discesa ci sembra che la terra vada man mano solidificandosi e stia per venirci addosso irta, dura, minacciosa, impervia, inestricabile.
* * *
E l’arrivo è una caduta — una caduta morale: la resa dell’equipaggio, la cattura dei passeggieri.
Ce ne usciamo, meschini, un dopo l’altro, curvi, dalla porticina di coda dell’apparecchio — le gambe inceppate — e rientriamo nella vita consorziale di quaggiù: vortice, calpestìo, brusìo, fremito umano e lentezza disperante che par quasi immobilità.
La carta moschicida ci ha ripresi.
Ormai il grande uccello posa sull’erba del campo — le ali ferme — incapace di muoversi più. Un minuscolo trattore lo trascina adagio adagio sotto un capannone.
Chi scende dall’aeroplano concepisce lì per lì un orrore ben giustificato per la ferrovia, e i suoi inconvenienti.
Tutta quella ferraglia, quelle catene stridule.
Il rotolìo dei vagoni, l’imbocco sibilante delle gallerie — l’esasperazione dell’attrito; i gridi e le risate delle Erinni nell’oscurità — un ergastolo sotterraneo, insomma.
E poi, quelle fermate di peso, tra bagliori e scintille; l’ansia di quelle fermate sudanti olio, sotto le tettoie delle stazioni.
Quanta violenza, che vociferazioni, quanti contrasti d’anime.
Tumultuosi clamori percuotono le cupole di vetro, lorde, colanti, affumicate come colossali lambicchi.
Tristezza della giornata.
Neve mischiata al carbone. Agguato dei binari. Bracieri che si spengono nel fango.
Nera schiavitù del fuoco. Caldaie sotto pressione. I bui spettri della necessità. La luce opaca. E non so quale angoscia repressa nell’aria.
Fughe di volti stranieri. Lampioni, tra nembi di vapore. Le nere orde dei manovali corrono qua e là.
Mischie furenti di viaggiatori — travolgenti promiscuità. Abbracci, baci supremi, o indifferenti. Acclamazioni di comitive a chi parte, cuori spezzati, e lacrime improvvise.
Fischi, vampate: il moto, gli urti dei vagoni e finalmente gli addii che ci perseguitano nella nebbia, lunghi, strazianti come l’abbaiare di cani mitologici.
* * *
A Vienna dopo il volo m’ero proposto d’evitare i treni e le ferrovie. Volli proseguire il viaggio con tutta la calma, per via fluviale — sul Danubio, fino a Budapest.
È il modo più lento d’arrivare.
Ma si arriva lo stesso.
Bruno Barilli.
Collezione: Diorama 01.04.36
Etichette: Bruno Barilli
Citazione: Bruno Barilli, “Calata dal cielo,” Diorama Letterario, ultimo accesso il 21 novembre 2024, https://dioramagdp.unito.it/items/show/2262.