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Titolo: Libeccio

Autore: Riccardo Marchi

Data: 1931-12-09

Identificatore: 234

Testo: Libeccio

Vento, vento, che malinconia! Il vecchio mondo riesco a rivederlo solo quando il vento disancora le navi e scoperchia i tetti delle case: i frangiflutti allora sono appena deboli paratie contro il passato che turbina di nuovo o forse è questo vago sentore di caos che mi riavvicina alle cose morte.

Se continuerà a soffiare con tale violenza, domani, all’ora della prima chiaranzana, il porto lo troveremo nudo, con le nuove andàne sradicate, le navi scomparse e via, via tutto ciò che appartiene all’oggi, via i nuovi ormeggi, via le gru meccaniche, gli aspiratori che vuotano di un fiato le sentine, via il silos, questo nuovo feudo di cemento grigio che ci ha tolto la possibilità di guadagnarci il pane: il porto apparirà con la primitiva nudità di murate rossigne e di pietrame secolare scalfito appena dalle acque.

La vita rinascerà allora lungo i canali navigabili che traversano la vecchia città; i vapori verranno scaricati alla maniera antica; il diritto della discarica toccherà a quelli che li avranno avvistati per primi e per primi gli saranno andati incontro fuor del molo; gli uomini delle carovane getteranno monete in aria rimettendo alla sorte la scelta dei turni di lavoro. Il grano caricato alla rinfusa sui barconi verrà misurato con lo staio; i « saccaioli » ascenderanno lo scalandrone che porta dalla banchina alla strada, curvi sotto il sacco di iuta, ed io me ne starò da parte, come un tempo, con uno schidione in mano e vi infilzerò un anello ad ogni sacco che passa, perché non si frodi il caricatore o la gabella, mentre ogni facchino curvo dirà porgendomelo per schernire la mia pochezza: — Tieni, vagabondo...

Ma è il vento che farnetica nelle cavità dei barconi morituri sbattuti contro la banchina e fustiga le vecchie case del quartiere e par voglia scalfire l’ultimo resto d’intonaco per rivelarcele nude domattina, con le ossature scarnite... Soffia e arruffa le acque sotto il ponte che divide la città dal mandracchio mediceo, dove si specchiano le case non appena le nubi veloci scoprono la danza strana delle costellazioni.

Più avanti il dedalo dei canali smaltisce l’arruffio di muri morti coi ponti che ancora, di giorno, li collegano alla vita: quello al cui centro la statua di San Giovanni Nepomuceno sta imbrattata di catrame e tutta rotta dalle busse degli uomini e del tempo e l’altro, di marmo, tutto pieno di epigrafi in memoria degli uomini del porto morti lo scorso secolo, i più forti, pronti ai giuochi di coltello e di mano per una causa giusta o ritenuta tale.

Risento, nel vento, quell’ingiuria : — Tieni, vagabondo... — e mi rivedo davanti uno di quei ceffi aspri e giocondi insieme, che in me, un po’ sparuto in quei giorni, con le scarpe ben lucidate perché non si scorgessero le ricuciture e le vesti lise, altro non scorgevano che l’aria dello sbirro filisteo, domandarmi : — Tu qua ancora? Quale mestiere fai, oggi?

Ma forse noi, i deboli o i forti, tutti quanti ci trovammo qua nell’ora del rigoglio o della mortificazione, ci guarderemmo senza motteggiarci o rimarremmo muti ad osservarci in volto i solchi del tempo, come tornassimo d’oltretomba.

Proveniva d’oltretomba il pazzo amletico che soleva aggirarsi a quei tempi per questi paraggi. Vestiva una palandrana nera sul cui bavero bisunto fluivano i capelli candidi ed era ingobbito dagli anni e dalla carta stampata di cui si riempiva le tasche. Dormiva nella sentina di un barcone ormeggiato di fianco al ponte. Al mattino lo traversava a cauti passi e, prima di entrare in città, si arrestava dubbioso, esclamando con voce cavernosa : — Si può varcare la soglia dell'infamia? — Nessuno, per quella sua aria grave e fatale, osava motteggiarlo. Odiava gli uomini, conte Amleto. Vendeva inchiostro ai mercanti e, sicuro di ravvisare in ciascuno di essi l’anima di un furfante, lo consolava la diabolica certezza di contribuire alla loro perdizione fornendo la materia occorrente per mettere il nero sul bianco.

Durante le notti di libeccio conte questa, non potendo prender sonno nel barcone, vegliava al centro de! ponte aggrappato alla spalletta e da lontano si scorgeva solo la sua bianca testa mentre faceva, come Amleto, eco al vento uggiolando :

E’ adesso proprio della notte l’ora delle

[ streghe

quando i sagrati si spalancano, e l'inferno

[stesso spira

un contagio su questo mondo...

O

Ma la carovana mi par tutta presente, come quei giorni. Il misuratore a torso nudo immerso nel grano fino al ginocchio vi affonda lo staio, lo ritrae ricolmo, ne pialla l'orlo con malizia prima di vuotarlo. Due tengono il sacco; uno lo lega; in quattro lo issano sulle spalle del faticante più giovane.

Quest’ultimo scalzo barcolla un po’, si equilibra e procede spedito lungo il pendio che porta alla strada. Una densa pula si solleva dal carico come da un vaglio invisibile e gli uomini vi si stagliano al centro: sembra che una mano li tragga a forza da quel nimbo per rivelarli quali sono: muscoli, carne, sudore ed afa, vento torrido, febbre di desiderio in ogni poro.

Voci, bestemmie, motteggi, qualche volta un canto... Dalla strada i cavalli spazientiscono, accendono faville sul selciato mentre i barrocciai aggiustano il carico; i ragazzi racimolano il grano dai sacchi sbuzzati; gli accattoni attendono l’ora della paga. Il pazzo amletico sta pensoso sul ponte. Quel suo biascicar versi non commuove più nessuno. Stasera gli uomini addetti alla ripulitura del barcone gli daranno una pezzolata di grano d’Odessa; col grano comprerà gl’ingredienti per fabbricare l’inchiostro e venderlo ai trafficanti... Non dà noia finché non tira il libeccio: allora quella cantilena aspra, segno di sventura quasi, non si sa se segua il vento o lo crei...

Vento, vento. Dove saranno stanotte gli uomini che solevano andare al buon risico nel gozzo a sei remi fuor del molo? Un fischio lacerante li chiamava all’appello. Stanavano dalle case con un remo ciascuno. Balzavano dentro l’imbarcazione sbattuta contro la banchina. Si aggrappavano agli scanni. Una bestemmia, un appello alla Madonna, un canto e via, fra onda e onda, in cerca del vapore che sibila e sta per finir nelle secche.

Intanto il cielo è stato spazzato dalle nubi; le stelle hanno cessato di danzare. L’inferno non spira più, come diceva il pazzo, « un contagio su questo mondo ». Ma la vecchia città mobile, incerta, caduca è tutta riflessa nelle spere tortuose e inchiostracee dei canali senza vita: solo vento, ancora...

*

Un giorno, a star li impalato per quell’umiliante mestiere, mi accorsi che i « saccaioli » non cantavano solo per raddolcire la fatica e aver l’anima lieve. Ogni tanto sospendevano tutti insieme il lavoro; rimanevano muti e sembrava osservassero il grano rimasto sulle fiancate del barcone ch’era già insaccato sui carri. Allora, come un’eco si udì un altro coro di voci strane, soffocato, proveniente da una distanza inverosimile. Dovetti faticare un po’ per accorgermi che dal carcere vicino i prigionieri corrispondevano a quel modo con gli uomini della carovana. Difficile era però afferrare il senso di quel linguaggio conosciuto solo da quelli che hanno infranto la legge.

Il carcere si specchiava nelle acque più imponente degli altri edifici e forse meno truce col muro della facciata intonacato come una grande tavola piallata munita di scatole di legno al posto delle finestre, aperte superiormente su di un intrico di sbarre attraverso le quali i detenuti prendevano aria e inviavano i loro messaggi vocali. Ai piani inferiori, donde venivano più distinte le voci, era il « transito », e vi sostavano i condannati di passaggio provenienti o diretti ai penitenziari dell'arcipelago.

Durante quegl’incomprensibili colloqui, forse solo provocati da un caritatevole desiderio da parte dei lavoratori di portar sollievo agli infelici, nessuno si preoccupava dell’uomo che controllava la loro fatica.

Ottenuta la risposta — una specie di controcanto — il lavoro riprendeva; passavano curvi sotto i sacchi, mi porgevano il solito disco, ma nessuno ardiva ripetermi: — Tieni, vagabondo...

Un mattino la voce dei prigionieri del «transito » rimase sola, come un’invocazione inutile. Il lavoro ferveva lo stesso sugli scali, ma gli uomini andavano avanti e indietro senza voce, oppressi da un’oscura paura.

Il pazzo amletico era stato trovato stecchito dentro la sentina del barcone donde non era più uscito da una settimana. Ve lo avevano tolto all’ora dell’inizio del lavoro quando l’ululo delle sirene del porto scuote la città dal torpore notturno e sembra

moltiplicare le increspature che fa la brezza sulle acque dei canali dove dopo poco comincia l’andirivieni dei rimorchiatori.

Il ricordo dell’uomo che aveva cessato di varcare le soglie dell’infamia per entrare in quelle dell’eternità stava nelle anime più incallite. Sul barcone era stato ritrovato il singolare strame di sapienza su cui il pazzo soleva passare le notti: Shakespeare, Dante, Omero, Virgilio, Tasso, Ariosto a fogli sparsi, bisunti, segnati da impronte digitali inchiostracee. Infisso ad una staminàra un pezzo di carta gialla con sopra scritto il motto amletico: « Essere o non essere... ».

*

Traversò il ponte solo gente muta, quella mattina, e i cavalli dei carrettieri ascesero la curva senz’esser fustigati.

I prigionieri continuarono a mugolare per un pezzo finché si spazientirono e tacquero.

Verso mezzogiorno la vita riprese coi soliti motteggi, ma le voci eran timide e velate.

Ma a raddoppiar l’angoscia in ognuno passarono a quell’ora un frate dalla barba grigia e fluente — il camice bianco e la croce rossa e turchina sul petto — e, a venti passi, timidamente, due suore: andavano, si disse, ad assistere un marinaio spagnolo che stava morendo nella sua cuccia.

Rivedo stanotte i due sòggoli bianchi emergenti dall’orlo del ponte come due vele di paranze affiancate. Il vento le sbatte, le ripiega, le sommergerà fra poco...

Intanto due uomini mi stanno osservando. Son quegli stessi della carovana ma incurvati dagli anni e dalle fatiche. Mi domanderanno forse: — Tu qua ancora? Che mestiere fai, oggi?

Hanno volti di gente felice e sembrano irridere la mia presunzione di vedere in questo instabile e accecante mosaico la vita che abbiamo insieme vissuto.

Riccardo Marchi.

File: PDF, TESTO

Collezione: Diorama 09.12.31

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Citazione: Riccardo Marchi, “Libeccio,” Diorama Letterario, ultimo accesso il 15 maggio 2024, https://dioramagdp.unito.it/items/show/234.