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Titolo: Una giornata

Autore: Ugo Betti

Data: 1931-12-16

Identificatore: 236

Testo: Una giornata

Nei quartieri ovest della città le case sono di costruzione recente, in cemento, a otto piani, con cento, anche duecento appartamenti. Dalla parte dei cortili le finestre non hanno persiane. Nei mattini bui d’inverno se ne vedono intiere colonne illuminarsi presso a poco alla stessa ora: sono le scale, oppure le cucine, situate una sotto l’altra, dove qualcuno riscalda il caffè prima di andare al l’ufficio.

Appena fuori dalla stanza da letto, con uno scialle sulle spalle, Massimo avverte nella casa un suono lungo, triste, così monotono che bisogna star lì un momento con attenzione per distinguerlo dal silenzio. E’ un filo d’acqua che scende quasi immobile dal rubinetto di cucina, guastatosi ieri da solo, come assicura nel suo dialetto la serva sopraggiungendo in ciabatte. Massimo guarda, sbadigliando con malumore, quasi con un senso di nausea; prova a girare la chiavetta d’ottone, che è sporca d’unto; prima d’uscire cava un taccuino consunto, segna: telefonare all’idraulico.

Il taccuino è fitto d'annotazioni: le tasse dei ragazzi, la smacchiatrice, recapiti di domestiche, risuolature, auguri al ragioniere capo. Più ci si affanna a sbrigare — pensa Massimo cullato dal frastuono del tram — più il mucchio cresce: ogni giorno altri fogli da timbrare, scarpe da risuolare, tazzine da trovare per ricompletare il servizio, sempre la barba da radere. Qualcuno sulla piattaforma canticchia sottovoce « Messico, giardino incantato ».

Nell’anticamera dell'ufficio, ogni pastrano sotto il suo cappello, sta lì con un suo piglio, come una persona sparuta: basta dare un’occhiata per sapere chi c’è. Già il tavolo è ingombro di pratiche dalla copertina verdognola con diciture in rotondo e moduli stampati infilati tra i fogli. Incomincia a sfogliarle irosamente, con una smorfia di disprezzo, di pena. Ma è il suo modo di fare; eccolo già seduto, col naso sulle carte. Quando si attenua il rumore degli autobus che fanno tremare i vetri si sentono fruscii di fogli voltati, respiri. Passa il tempo.

— La gomma. Chi ha preso la mia gomma?

Tutti i giorni a un dato momento, con improvvisa esasperazione. Massimo cerca palpando sui fogli aperti la gomma, oppure le forbici, oppure il timbro. C’è troppo disordine, ecco; le cose non vanno come dovrebbero. Respinge le carte con dispetto, accende una sigaretta.

Il ragioniere, appoggiato al termosifone, e disegnando nell’aria con le mani pallide, descrive il suo nuovo appartamento, col sole in due finestre. L’altro impiegato, rialzando gli occhiali sulla fronte spettinata, calcola che il fitto non è caro. In fondo c’è un calendario con una testa rossa di donna che ride. La pendola è ferma come sempre alle quattro. Improvvisamente Massimo sente come uno stupore penoso: ha l’impressione di ricordarsene, di tutto questo: quei gesti quadrangolari laggiù, questa sigaretta che gli fuma fra le dita sporche d’inchiostro, quell’inflessione di voce del ragioniere, che parla delle cucine Iupiter... ha l’impressione che lui, questo momento, l'abbia vissuto già, chi sa quando. E’ soltanto un abbaglio della memoria, certo; ma gliene deriva ugualmente un senso di malessere. Prova il bisogno di avvicinarsi ai compagni, confermando anche lui che le Iupiter, si, sono assai convenienti, dato il rincaro del gas. Si sente quasi intenerito d’esser d’accordo coi compagni, che sono buona gente, poveri diavoli, in fondo.

Il discorso del gas che è rincarato seguita anche a casa, a tavola, ma con tutt’altro tono. « Se ne consuma troppo, non si sta attenti », ripete Massimo con irritazione, cercando di tagliare il suo manzo lesso che si sfibra sotto il coltello. Poi, masticando, riflette che generalmente in casa, non si parla mai d’altro che di bollette de! gas, di domestiche che rispondono, di finestre che chiudono male, e generalmente se ne parla con una voce quasi aspra. E’ curioso. Massimo qualche volta parla anche d’altro, di libri, oppure di ricordi: il tempo quando lui era ragazzo e andava a pescare con le mani lungo i torrenti freschi e celesti del suo paese; ma non in casa; sempre con altri; conoscenti, magari gente estranea; e poi con una voce diversa. E’ perché? Anche i ragazzi, che ora fanno a chi mangia più in fretta, fingendo d'essere in una corsa e dandosi gomitate per burla, son sempre un po’ sgarbati, insofferenti, a casa; già senza confidenza. Sarà questo: che a (uria di stare assieme qualche cosa si consuma, come per un attrito; ci si conosce troppo. La moglie, avanti a lui, occupata a contare le noci ai ragazzi, ha ancora qualche gentilezza negli occhi, nel taglio della bocca; ma come s’è sciupata anche lei! Massimo la osserva con un po’ di rancore. Lo sguardo intanto gli capita su due macchie di vino, due cerchi neri sulla tovaglia appena cambiata. Ecco, non si sta attenti.

Questo pensiero, che non si sta attenti, che le cose non vanno bene, gli si riaffaccia anche dopo, in ufficio e più tardi, all' Intendenza; sembra quei ritornelli di canzonette che fanno il nido in testa come mosconi. Nei corridoi dell'Intendenza, interminabili, bui, con busti di gesso, gli uscieri non sanno nulla; fanno dei gesti vaghi; gli impiegati stanno a sentire annoiati perché loro non c’entrano, ci sarebbe un titolare, che è assente; sempre code di gente che brontola agli sportelli; sempre i tranvai gremiti, pestate, malumore, la voce del fattorino: — Biglietto, biglietto. — Massimo manovra penosamente per tirar fuori i ventini, che per poco non gli cadono, ingombrato com'è dalla busta di cuoio, che ha la maniglia scucita, dai guanti, da un rotolo di carta carbone comprato or ora. C’è troppe cose da tenere a mente, ecco cos'è che disturba; si ha sempre l’impressione d’aver dimenticato qualche cosa. Talvolta, nel l’aspettare un tram, Massimo si mette a sedere sulla panchina di un giardinetto. Si sente come disgustato. Si ferma un po’, gli sembra quasi di prendersi una rivincita; per qualche momento gira intorno gli occhi, guarda i passeri (che calano a beccare) con un senso di libertà, di vacanza.

C’è un pezzo di giornale sulla panchina, con una notizia da Marsiglia. Marsiglia lui se la figura come una gran confusione di, vapori sporchi, di gru, di dialetti, di cesti di pesce, di donne. Ricorda che da giovane una delle sue idee romanzesche sarebbe stata di tenere sempre una valigia pronta, per andar via. Ma con gli anni si ha altro da pensare; fanno capire tante cose, gli anni. Queste studentessine, per esempio, questi giovanotti manierosi, che vengono tra i vialetti a parlare fitto, mentre le signorine guardano in là, oppure fanno le spiritose, Massimo lo sa già, quello é che stanno dicendosi. Ma il più curioso da osservare, guardandolo da qua, dalle aiuole deserte, è il movimento della gente che corre insieme da un tranvai all’altro come in una manovra. Scendono in furia, a ondate, da tranvai che arrivano, si precipitano verso altri tranvai che si avviano già illuminati di rosso e di verde. Questo movimento non sempre va nel medesimo senso. Prima tutti vengono in qua, verso il lavoro, poi tutti tornano indietro, a mangiare, poi tutti vengono ancora in qua, a divertirsi, poi tutti tornano ancora indietro, a dormire. A Massimo la cosa sembra angosciosa, come dire?, comica. Mentre macchinalmente si avvia lui pure verso il suo tram, che è spuntato laggiù, cerca di formulare la sua impressione; ma ora ha perso l’abitudine di pensare a cose astratte. Teme che nel sedere sulla panchina abbia gualcito il paltò. — Biglietto, biglietto. — Sulla piattaforma, si parla di appartamenti, di affitti cari, di corse. Qualcuno fischietta « Messico, giardino incantato ».

Anche il grammofono del terzo piano suona la stessa canzone. In conclusione Massimo ha appetito. Mentre la moglie continua a lamentarsi della signora del piano di sopra, che batte gli scendiletti fuori d’ora, lui mangia e beve copiosamente. Poi sazio, rosso, alza gli occhi un po’ velati e impiccoliti.

— Signore, — fa la serva — lo stagnino non è venuto.

Ora davanti al rubinetto rotto Massimo s’è incantato a guardare il filo d’acqua, immobile, come un cannellino di vetro. Quel suono sempre uguale, nella cucina silenziosa che sa di rigovernatura, lo ipnotizza, gli fa venire in mente qualche cosa, qualche cosa di sconsolato: ecco, l’eternità. A letto, mentre la donna seguita a parlare dell’inquilina di sopra, dicendo che lui, Massimo, dovrebbe farsi sentire, l’uomo in silenzio allunga una mano, le stringe la spalla grassa. Tutte le finestre sul cortile si sono spente, tranne un bagno, rimasto acceso per dimenticanza. Oltre il profilo nero della casa si vede come una nebbia lucente. Sono le lampade ad arco della strada.



Ugo Betti

File: PDF, TESTO

Collezione: Diorama 16.12.31

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Citazione: Ugo Betti, “Una giornata,” Diorama Letterario, ultimo accesso il 17 maggio 2024, https://dioramagdp.unito.it/items/show/236.