D‘Annunzio e l’Abruzzo (dettagli)
Titolo: D‘Annunzio e l’Abruzzo
Autore: Lorenzo Gigli
Data: 1938-11-23
Identificatore: 1937-38_57
Testo:
D Annunzio
e l'Abruzzo
Domenica Pescara spalanca le sue porte a tanta gente venuta da ogni centro italiano per le onoranze al Poeta che ha lasciato all’Italia sì straordinaria eredità d’opere e di gloria. L’Abruzzo dannunziano è in festa: lo spirito di Gabriele torna in questi giorni nella casa che lo ha sempre aspettato quand’era vivo, tra il popolo che si riconosce in lui per miracolo di poesia; passa per le contrade della « città natale e fatale » onde Egli apprese, come disse un giorno, l’amore del rischio e della musica: « non soltanto la mia infanzia e la mia puerizia, ma tutte le mie età vivono in ogni pietra, in ogni mattone, in ogni filo d’erba, in ogni ago di pino... ».
La fedeltà letteraria di Gabriele d’Annunzio all’Abruzzo, riserva intatta di ispirazioni e di temi antichissimi e nuovi, è consacrata, prima che nella tragedia di Mila, nei racconti della giovinezza e in quei capitoli del Trionfo della morie dove sono riassunti i motivi e tracciati gli ampi disegni dai quali si svolgerà il grande affresco drammatico diventato poema della collettività, consacrazione e trasfigurazione artistica, quindi eternamento, di tradizioni, costumi, credenze e caratteri. Così, dopo secoli, un grande poeta tornava alle forme popolari della sacra rappresentazione rinnovandole nel dramma dei pastori collocato in un’epoca favolosa, bagnato di sensualità, di superstizione, di fede elementare, di forza primigenia, religioso e istintivo, tipicamente abruzzese, « grave di cose misteriose ed eterne e senza nome » come il paese dove Giorgio Aurispa un giorno ritorna per rifarsi una nuova innocenza o per morirvi.
L’ispirazione abruzzese e i legami con la terra natale sono costanti nell’opera del poeta, anche in quella «minore», persino nelle cronache giornalistiche e mondane ch’egli scrisse durante un periodo non breve collaborando a giornali politici e letterari e firmando con una serie di pseudonimi ermetici o volutamente sbarazzini, secondo gli dettava quello spiritello della stravaganza, il « mazzamurello » abruzzese ricordato nella Vita di Cola e nel Libro segreto. Nelle prose giornalistiche di quel periodo, dove sono in potenza molti temi che il poeta riprenderà più tardi e si scoprono gli elementi che la sua cultura quotidianamente assorbe ed elabora e i primi influssi di movimenti, tendenze e dottrine che lavoreranno sotterranei per dichiararsi un giorno ed assumere la loro parte nella sua opera; proprio in quelle prose troviamo spunti e motivi abruzzesi, trascrizioni di colore locale, schizzi d’ambiente e quadri di paese che anticipano la sostanza di pagine universalmente note.
Affiorano, appunto, in alcune di queste cronache antiche, gli spiritelli di quell’umorismo dannunziano che farà poi corpo con la migliore sua prosa polemica e con la sua eloquenza di combattimento.
Le indimenticabili pagine sulla « casa paterna » nel Trionfo della morte hanno un’anticipazione in una « favola mondana » intitolata Cari penates, interno d’ambiente e di psicologia che l’improvvisazione giornalistica non aduggia con le sue fatali banalità: quasi un cartone per il maggiore affresco.
I ritorni nostalgici all’Abruzzo talvolta coincidono col ricordo di feste familiari e patronali, di grandi ricorrenze religiose legate a visioni dell’infanzia felice: il Natale sotto la neve, la Pasqua d’oro... Appunto una « favola di Natale » derivata dall’ambiente abruzzese troviamo in una prosa dell’87; e luci di presepi e musiche di zampogne compaiono qua e là come richiami d’un pensiero sempre presente. Talvolta la trascrizione dal fondo paesano è quasi letterale, condotta sui testi del Finamore e del De Nino, le opere che il D’Annunzio stesso citerà come « fonti » della Figlia di Iorio nel commentario alla versione francese della tragedia. Dalle « Tradizioni popolari abruzzesi » del Finamore derivano la Canzone della ricotta insanguinata e le favole Le Palombe e Il Pazzo pubblicate nella Cronaca Bizantina nel gennaio dell’86. E derivano dagli « Usi e costumi abruzzesi » del De Nino la descrizione di cortei nuziali, le « donne della parentela » col canestro di grano sul capo, il pranzo nuziale, il mastro delle cerimonie, che vediamo in Mungià delle Novelle della Pescara e ritroveremo trasformate in poesia eterna nelle note scene della Figlia di Iorio; ma Mungià, prima d’entrare nel libro, fu una prosa apparsa nel Capitan Fracassa una domenica dell’84 col titolo Uomini, Bestie e Paesi; e origine giornalistica ebbero pure parecchi altri « numeri » delle Novelle, dagli Annali di Anna alla Fattura.
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Era la vigilia di Natale; ed io vidi sulla piazza di Gardone basso, dov’è l’approdo dei piroscafi, due zampognari d’Abruzzo che suonavano i loro strumenti e nessuno era ad ascoltarli, salvo i due gatti siamesi del farmacista distesi a un malinconico raggio di sole decembrino; gli zampognari s’avviarono sempre suonando la loro nenia pastorale su per le stradette del borgo, forse per avvicinarsi alla dimora del loro grande «paesano», con la segreta speranza che lui li sentisse. Non so se li sentì e li fece entrare. I giorni di vigilia egli li passava quasi sempre nella più stretta clausura, in colloquio con le Ombre. Quella di sua Madre, prima di tutte; ed essa gli fu accanto e lo consolò anche poche ore prima del transito estremo: la Madre, ch’egli cantò in tutte le Madri della sua poesia, dalla madre che sta, vigile, all’alba sul limitare da poi che alla fatica frumentaria i molti figli attendono;
alle sette Madri Tebane della scena iniziale della Fedra; alle sette Madri Italiane della Canzone per i marinai morti in Cina; alla vegliarda sola nella casa deserta delle strofe Per i Cittadini nei Canti della guerra latina; a Candia della Leonessa...
E un altro giorno vidi un pellegrinaggio di gente abruzzese al Vittoriale, dopo la morte del Poeta. Gli portavano l’acqua del suo fiume, la terra de’ suoi monti. Mi ritornarono alla memoria le parole della dedica della Figlia di Iorio, le dissi al vento del lago mentre la piccola schiera saliva sul colle e le donne erette e fiere parevano veramente sostener sull’omero, con la mano alzata, un’anfora ideale: «... a tutti i miei morti, a tutta la mia gente fra la montagna e il mare, questo canto dell’antico sangue consacro ».
All’Abruzzo, al paese donde era uscito, pensò tutta la vita, in pace e in guerra, col desiderio costante della casa paterna, là dove la felicità d’una volta non aveva lasciato « se non coltelli affilati per dilaniarmi». Era la piccola patria: « è sensibile qua e là come la mia pelle; si ghiaccia in me, si scalda in me. Quel che è vecchio mi tocca, quel che è nuovo mi repugna. La mia angoscia porta tutta la sua gente e tutte le sue età... » (Notturno). Vi ritornò nei giorni della guerra per rivedere la Madre morta; un’altra volta vi passò a volo lasciando cadere dalla carlinga un’offerta di fiori sulla tomba materna. Restavano le sorelle, ma non le rivide più; l’ultima superstite, Ernestina, colei ch’era « immagine viva della Madre », è morta in questi giorni. Gabriele avrebbe voluto ricongiungersi con la sua terra e con la sua gente, ed era sincero nelle sue crisi di nostalgia. Parlava spesso del ritorno, come d’una sua certezza, d’una promessa misteriosa de’ suoi colloqui segreti. Invece non tornò più, rapito via dal suo alto destino.
Lorenzo Gigli
L’eremo di San Vito dove D’Annunzio scrisse il Trionfo della morte
Collezione: Diorama 23.11.38
Etichette: Lorenzo Gigli
Citazione: Lorenzo Gigli, “D‘Annunzio e l’Abruzzo,” Diorama Letterario, ultimo accesso il 21 novembre 2024, https://dioramagdp.unito.it/items/show/2376.