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Titolo: I ciabattini

Autore: Achille Campanile

Data: 1939-01-04

Identificatore: 1939_39

Testo: IL LAVORO
I ciabattini
I ciabattini sono le creature più liete del mondo. Li vedo lavorare a tutte le ore e perfino a notte fonda. Sempre seduti al loro deschetto a battere, senza distrarsi, senza perdere un minuto. Davvero fanno tesoro del tempo. E sono sveltissimi. In men che non si dica una scarpa è a posto. La lasciate e tornate a prenderla dopo un’ora. Si contentano di poco: una lira, due lire. Vivono di centesimi. E guadagnano bene, anche. Sono sempre in mezzo a un subisso di scarpacce vecchie di cui non dareste due soldi. Accomodano tutto. Martello, spago, lesina, e il lavoro è fatto. Non vi dicono mai: Non vale la pena.
Dev’essere un lavoro divertente, anche. Non ho mai visto un ciabattino che si annoiasse. Sempre allegri e sereni. Ben disposti verso le miserie del prossimo e pieni di indulgenza per le scarpe sfondate. Innamorati del proprio lavoro. Non ho mai trovato un ciabattino che desiderasse cambiar mestiere. Sognano, questo sì. Sognano perfino d’essere Re. Ma non cercano nè desiderano di fare qualche altra cosa o di guadagnare di più lavorando meno.
Come una formichella, il ciabattino si dà un gran da fare. Certi canticchiano o zufolano. Qualcuno ha un merlo in gabbia.
La notte, a tarda ora, tutti dormono e vedete ancora il ciabattino che — curvo sul suo deschetto, davanti a un piccolo lume — batte batte.
Di due ciabatte fanno un par di scarpini. San fare certe risuolature che sono capolavori. Lucidano perfino la suola. E si adeguano alle possibilità finanziarie del cliente: per chi vuole la mezza suola, mezza suola; per altri suola e tacchi; o la mascherina; o la rimonta.
Un tempo in via Capo le Case a Roma c’era uno sgabuzzino con una porticina a vetri polverosi e sconnessi, e dentro appena il posto per il ciabattino e il deschetto. Il ciabattino era vecchio e allegro. Con due baffoni d’un nero non del tutto naturale, un naso rosso che pareva una ciliegia e una bombetta perennemente in capo. Sempre al suo posto nella stessa posizione a lavorare notte e giorno. Certe volte rincasando a tarda ora della notte lo vedevo attraverso il vetro impolverato della porta, che ancora lavorava davanti alla sua lampada a petrolio dal paralume di carta oleata, e avevo rimorso di aver perduto ore scioccamente. Alle pareti dello sgabuzzino erano incollati ritagli di giornali illustrati e cartoline raffiguranti belle donne. Era italiano e meridionale. Ma sul vetro della porta aveva attaccato un cartello ingiallito con la scritta « Speak English ». Chi sa mai a quali inglesi veniva in mente di andare a far conversazione col ciabattino. E come se, quando si presenta a un ciabattino una scarpa sfondata, sia necessario un discorso per fargli capire che la si vuole risuolata.
Ogni tanto, tra un colpo di martello e l'altro, dava furtivi baci a un fiasco che teneva sotto il deschetto.
Lo vidi per anni al suo posto e adesso da molto tempo non c’è più. Sono certo che è in Paradiso.
Per qualche tempo, trovandomi a Parma, frequentai un ciabattino. Era un tipo magro e lungo che somigliava a Don Chisciotte, innamorato — lo confessava — della poesia. Con occhi spiritati e con strani sobbalzi declamava Dante e Goethe tradotto dal Maffei, mangiandosi le parole per la foga. « La danza degli spettri » era il suo cavallo di battaglia. Si estasiava all’idea del macabro ballo. Cominciava in tono misteriosissimo guardandosi attorno con sospetto:
« A mezzo è la notte — sogguarda il torriere... ». E quando arrivava all’ultimo verso, « Lo scheltro dirocca — sul duro terren », aveva appena detto « scheltro », che, in un rapido, concitato accavallarsi di sillabe incomprensibili, gli scappava di bocca « terren ».
Feci amicizia con lui e spesso andavo a trovarlo. Fra un verso di Goethe e uno di Dante, e sempre continuando a battere e a tirar la lesina, mi confidò che era ciabattino a tempo perso, ma che in realtà faceva calzature di lusso su misura. Gli chiesi il prezzo e trovatolo conveniente gliene commissionai un paio, anche per fargli un piacere. Ogni tanto passavo a vedere se eran pronte le scarpe, ma con nebulosi pretesti egli si schermiva: ancora c’era da completare, ritoccare, o che so io. Mi stupivo di non trovarlo mai al lavoro delle mie scarpe. Finalmente furono pronte. Pagai, le ritirai e avendole trovate ottime tornai a ordinargliene un altro paio. Ma egli tergiversò accampando ragioni vaghe. Fu soltanto dopo parecchio tempo che scopersi la verità: l’ottimo ciabattino era un millantatore; s’era vantato di saper fare bellissime scarpe per brillare ai miei occhi, senza pensare che avrei potuto ordinargliene un paio; avuta la commissione, per non essere smascherato, aveva a sua volta commissionato le scarpe a un altro calzolaio, tenendomi nascosta la cosa. Credo che gli sieno costate più di quanto le fece pagare a me.
I ciabattini giovani e in gamba, con una buona clientela — e hanno tutti una clientela vasta e affezionata — sono ricercatissimi dalle ragazze, servette e cameriere da marito, che li guardano con occhi languidi e una scarpa sfondata in mano e sognano che lo sgabuzzino diventi un bel negozio elegante ed esse seggano alla Cassa davanti a uno di quegli apparecchi a tasti dove si mettono i soldi ed esce un bigliettino. Il che in certi casi si avvera punto per punto. Ma i ciabattini giovani non abboccano all’amo tanto facilmente. Hanno da fare e badano al lavoro. Alla fine, però, finiscono per caderci anch'essi. Non sono di pietra, tutto sommato. Hanno anch'essi un cuore. E mettono su famiglia.
Da qualche tempo sono state inventate le macchine per risuolare le scarpe. Ma la più straordinaria macchina non vale un ciabattino. Ahi, chè le macchine guastano tutto. Dove andranno i ciabattini? Che faranno? Non è questa un’offesa al loro alacre e modesto lavoro? Perchè soppiantarli con macchine che fanno male quello che essi fanno con tanto amore. bravura e letizia?
Essi, che non respingono nessuno.
Essi, che in certi casi non conosceranno mai «l'altra scarpa».
Essi, che han fatto loro, sia pure con altra interpretazione, il motto evangelico: non sappia la destra quello che fa la sinistra.
Col volto aguzzo, illuminato di sotto in su dalla lampada del deschetto come dalla luce d’una ribalta, sono gli amici di Cenerentola, vivono nel mondo delle Fate, conoscono i Principi in incognito, i Reucci vestiti da mendicanti, i rospi, le Streghe; nel loro piccolo antro popolato di scarpe scompagnate, la loro vita è una favola.
Una volta un ciabattino gran signore diventò: penano cantando, come uccelli in gabbia.
Poi s'addormentano e sognano. Sognano che, come in una fiaba, crollano le pareti dello sgabuzzino e al posto di questo appare un gran salone, quasi una Reggia, con colonne, tappeti, lampadari, divani circolari di velluto, panchettini per appoggiare i piedi, specchi, piramidi di scatole e paggi inginocchiati davanti a grasse signore con piedini di fata, a uomini con gli occhiali e con una scarpa sola, a ragazze capricciose che non si contentano mai.
Achille Campanile

File: PDF, TESTO

Collezione: Diorama 04.01.39

Citazione: Achille Campanile, “I ciabattini,” Diorama Letterario, ultimo accesso il 17 maggio 2024, https://dioramagdp.unito.it/items/show/2456.