Di padre in figlio (dettagli)
Titolo: Di padre in figlio
Autore: Lorenzo Gigli
Data: 1939-01-11
Identificatore: 1939_40
Testo:
Di padre in figlio
Riconoscibili il paesaggio, l'atmosfera, quasi si direbbe i personaggi del romanzo Di padre in figlio, di Mario Sobrero (ed. Bompiani, L. 14); e questa trasparenza di scrittura, che sotto nomi appena alterati e leggere allegorie rappresenta la realtà della vita e ne distilla le essenze morali e liriche, trova la sua ragione, il suo fondamento nella esperienza stessa del romanziere, il quale apre il quaderno dei ricordi giovanili, e con un profondo sentimento del tempo e una chiara coscienza del destino umano ne sottrae luoghi, creature, orizzonti e fatti alla aridità della cronistoria per trasferirli sul piano dell’arte.
Viaggio della memoria attraverso un quarto di secolo, dagli ultimi anni dell’ottocento alla fine della guerra europea. I capitoli del romanzo non portano titoli, ma li distinguono alcune date: 1892 il primo; 1896 il secondo; il dodicesimo e ultimo appartiene al biennio 1916-18. Qui finisce un’epoca, si risolve una crisi i cui antecedenti sono appunto maturati nel periodo che il Sobrero rievoca; arriva all’epilogo quella trasformazione dei valori storici e spirituali del mondo il cui presentimento è diffuso in tutto il romanzo, gli dà un tono e un carattere quanto mai singolari.
La materia è complessa, il quadro di ampio sviluppo ideale, anche se volutamente limitato a una regione e a pochi nuclei familiari. Viene, dicevamo, dalla cronaca e dall’esperienza, è autobiografìa, moralità e racconto. A Graziano Farra, personaggio centrale e unificatore, possiamo dare un nome preciso, una personalità fuori dal mito. Tutta la sua biografia è controllabile su dati reali; persino i temi delle sue commedie, dei suoi romanzi, dei suoi servizi giornalistici si possono firmare con una sigla identificabile tra mille. Il lettore vedrà.
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Il rapporto che si stabilisce subito tra esso e il Sobrero è di cordialità e di rispetto. Si sente che lo scrittore non ha truccato nulla, è onesto fino allo scrupolo. Attinge dal gran fiume della memoria con assoluta fedeltà, non per mettere in carta i soliti fatti personali o i frammenti d’un diario intimo come che sia; bensì per incanalarne la corrente dentro le rive di una narrazione condotta secondo le ottime regole e i vitali esempi di una tradizione da continuare. Mario Sobrero è nella linea dei romanzieri di classe, e non tien su le sue impalcature con l’appoggio di artifici e di divagazioni. Beve nel suo bicchiere, come diceva De Musset; ed è bicchiere di genuino cristallo che rende un limpidissimo suono. Ha scritto a distanza d’anni tre soli romanzi; ci sono passati sopra il disordine letterario del dopoguerra, le mode variabili e le disoneste speculazioni, e quelli han resistito alla prova (non si può dire altrettanto di due terzi della letteratura narrativa dal 1920 in avanti): Violetta di Parma è una lettura dilettevole e piana anche oggi; e Pietro e Paolo è stato ristampato dopo un decennio dalla sua prima apparizione senza che la sua intelaiatura interiore ed esteriore scricchiolasse.
Di padre in figlio si lega bene a quel romanzo del '24, fa corpo insieme; sono d’un medesimo blocco; e non è senza significato che il Sobrero, prima di attaccarsi alle memorie giovanili, abbia voluto con Pietro e Paolo esaurire la febbre dei giorni in mezzo ai quali la sua maturità si svolgeva, a guerra ultimata. Di padre in figlio, scritto quattordici anni dopo, narra avvenimenti anteriori, risale oltre le soglie del secolo passato: ed è un romanzo più riposato, con una architettura più solenne. È la prova completa dell’artista, la testimonianza più fedele delle sue qualità. Si potrebbe mettergli per epigrafe le parole che Claudia Farra morente dice al figlio il quale è sul punto di terminare un romanzo: « Sono sicura del risultato. Ed anche del successo. È un libro che mostra davvero chi sei. Sarà compreso da tutti. È vita ».
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Vita... Compreso da tutti... Questo è il traguardo d’un romanziere vero. Ci si arriva per parecchie strade; e la strada scelta dal Sobrero è una delle buone. Anche il suo modo di raccontare risente delle sue tendenze e simpatie, ha un’impostazione di gusto classico e una tecnica collaudata. Si procede, diciamo così, per « vite parallele »: cinque, sei pagine a un personaggio o a un gruppo di personaggi; poi un asterisco, e il racconto passa ad un altro gruppo (è un sistema che ha i suoi inconvenienti, e sulle prime può creare qualche ostacolo alla corrente lettura). I gruppi principali sono due: borghesi e contadini; una famiglia della borghesia provinciale del vecchio Piemonte che vive fra Torino e le campagne intorno a una storica cittadina delle Langhe, e una famiglia di mezzadri, scelte a raffigurare il travaglio delle generazioni. Tre generazioni vi compaiono, con le loro mentalità, speranze, disegni, con le loro sofferenze e delusioni, con le loro crisi: ma la consegna della storia e della vita è sempre la stessa, e la fiaccola si tramanda di padre in figlio. Il Sobrero, in opposizione alla formola del romanzo europeo naturalista che ha fatto tante volte centro sul conflitto delle generazioni (specialmente i russi, Turghenieff, Gonciarov... ), ha voluto piuttosto rappresentare la fatale collaborazione delle generazioni in obbedienza alle superiori finalità della vita. E l’ha fatto con un’ansia e un’emozione a cui il lettore partecipa. Il romanziere è felice nella caratterizzazione degli ambienti e nella trasfigurazione poetica delle sue figure; nella trascrizione dei fatti e degli episodi gli avviene di restare talvolta legato al tono diaristico, vincolato al documento e alla cronaca. Ciò si riscontra soprattutto nelle parti, per così dire, cittadine, dove si profilano i primi conflitti sociali concomitanti con la nascita della borghesia industriale. Ma si tratta di sfondi, di scenari occasionali; e l’armonia del romanzo non ne soffre eccessivamente. La poesia ha presto la rivincita, essa impregna le atmosfere, aureola le figure, nobilita i destini. Senti che l’autore ha conosciuto e amato luoghi e persone, ed è rimasto fedele alle loro lontane immagini di nostalgia. Questi contadini delle Langhe che lavorano sotto i festoni delle viti sulle colline ridenti, egli li ha custoditi, prima di affidarli alla fantasia, nel cuore. Uno di essi scende un giorno nella grande città e vorrebbe diventare operaio, come tanti altri che han lasciato la terra per l’officina. Ma li vede da vicino, gli operai, e gli sembrano schiavi delle macchine. « Quella vita, come si poteva farla? Stando in una vigna o in un campo, con tanta campagna intorno, Giusto guardava la terra che lavorava, com’era sana, piena di forza; la toccava smuovendo qualche zolla con la sua grossa scarpa, che n’era sempre tinta e sembrava anch’essa terra ». Ed ecco Camilla, la sposa di Giusto, una contadina come tante, e non fa che passare nel romanzo, ma il lettore non la dimentica: « Il contegno della donna era quello d’una buona serva; faticava, obbediva a tutti, si vergognava a mangiare: la festa saliva al paese per la prima messa, impacciata in un duro vestito, e subito ritornava; non aveva mai niente da dire e forse non ascoltava nemmeno quel che dicevano gli altri; ma doveva esser contenta del matrimonio e di ogni cosa ».
Gente che il Sobrero ha visto vivere e morire (il libro sui contadini che il suo personaggio Graziano scrive, è poi questo romanzo che ha scritto lui, Sobrero), che ha conosciuto fanciullo, ascoltato, amato. Senza l’amore « che detta dentro » non si raggiunge la poesia. Vedete com’essa solleva e nobilita queste creature; il vecchio contadino Urbano che muore un mattino d’autunno, mentre sta arando un campo, e i grossi buoi dell’aratro sentono che è successo qualche cosa di strano e mandano lunghi muggiti come per avvertire gli altri di casa; e la signora Claudia che si congeda dalla vita ricongiungendosi all’eterno: «Fissò l’attenzione sopra una costellazione che spiccava da una parte, in quello spazio dolce e profondo profondo... Quale costellazione era? Ma che importavano i nomi delle costellazioni? Claudia la vedeva, alta ma non lontana. Pensava che ella sarebbe poi salita in quella immensità, e che di là avrebbe sempre conosciuta la vita degli altri, dei suoi cari, sopra la terra ».
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Queste due morti parallele, del contadino folgorato sulla zolla, e della signora che vede il cielo aprirsi, sono tra gli episodi più commoventi nella loro esemplare sobrietà verbale. Ma non restano isolate nel romanzo, sono in funzione dell’umanità del dramma che investe tutta la folla dei personaggi, e fa sì che di ognuno di essi, i maggiori e i minori, duri e agisca la presenza anche quando la morte li ha fatti uscire dal loro piccolo mondo. Pensiamo a loro come Graziano alla madre perduta: «Si ritrovava sempre in alto pensando a lei... », Lorenzo Gigli
Collezione: Diorama 11.01.39
Etichette: Lorenzo Gigli
Citazione: Lorenzo Gigli, “Di padre in figlio,” Diorama Letterario, ultimo accesso il 21 novembre 2024, https://dioramagdp.unito.it/items/show/2457.