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Titolo: Tripoli la grande

Autore: Giovanni Comisso

Data: 1939-02-22

Identificatore: 1939_97

Testo: VIAGGIO ALLE PROVINCIE DEL SUD
Tripoli
la grande
(DAL NOSTRO INVIATO SPECIALE)
Tripoli, febbraio
Si giunse a questa sponda, tanto legata ai ricordi della nostra adolescenza, sul finire della notte. Il rallentare dei motori ci affrettò a salire sopracoperta, dove il cielo ci accolse con nitide parvenze della poesia di Dante. Il bel pianeta, che conforta ad amare, faceva tutto ridere l’oriente, e contro di esso gareggiava in splendore un’esile fetta di luna, ma entrambi presto si velavano alla luce dell’alba, che tremolava sulla marina. Navigare sempre sconvolge i nostri sensi profondi connessi a tempi lontani, come un dormire fantasioso di ricordi. E nel prepararci per scendere alla terra apparsa, ci si trovò cóme ad un felice risveglio, incerti su tutto il tempo vissuto e rinnovati da fresche speranze.
Motivi delle canzoni che si cantavano quasi trenta anni fa, al tempo della conquista di questa terra, velarono le imagini dantesche, con una vividezza come si fosse ancora nell’entusiastica adolescenza di allora. Tripoli, per noi destinati a questa epoca di guerre, fu la prima guerra del nostro tempo. Le guerre narrate dalle istorie con essa uscivano dai freddi schemi per realizzarsi nella vita, nella nostra vita italiana. E apprendemmo i nomi di nuove battaglie e di nuovi eroi. E un Poeta accompagnava col canto la nuova conquista. Non fu senza emozione che si rivolse per la prima volta lo sguardo su questa bianca città illuminata dal sole, si videro le palme, si vide il Castello; si rividero le palme, si rivide il Castello, perchè essi erano già da tanti anni nel mondo delle nostre imagini. Ma oggi è una nuova conquista che è avvenuta di questa terra, fino a pochi anni fa questa terra era tenuta solo per garanzia del mare, oggi è qualcosa di più, oggi, questa terra che credevamo ingrata, si conquista definitivamente come terra che sia coltivata e che dia frutto.
Siamo impazienti di scendere, à piovuto nella notte, ritrovo l’aria africana con ventate tepide e barbagli, e la terra rossa che non si lascia intridere. Salgo su di una carrozzella, il trotto del cavallo e lo scorrere leggero delle ruote con le gomme sono la prima impressione sonora di Tripoli, e rimarrà per me il motivo di questa dolce città. Comode, pratiche ed oneste carrozzelle sempre pronte ad accoglierci come si faccia un cenno anche di lontano. Due tripolini con un giubbetto splendente di giallo guardano le navi, appoggiati alla balaustra. Scorrono le ruote, e la città dischiude le sue vie ad una ad una, ampie, diritte vie, larghe vie nuove fiancheggiate da alti portici. Vie che si protendono verso l’oasi, che di essa, sovrapponendosi, ne incorpora qualche gruppo di palme nei giardini; qualche palma rimane sull’orlo della via, ma là dove erano campi ed orti, sorgono case, grandi case richieste dalla popolazione in aumento. La città si sovrappone all'oasi e l’oasi, anzi qualcosa di più di un’oasi, la campagna, la vera campagna, densamente feconda si sovrappone fuori dalle vecchie mura difensive, su quello che si chiamava deserto.
A vedere oggi gli aranceti, i mandorli in fiore, gli oliveti, i vigneti, i campi di frumento, là dove le fotografie d’un tempo ci mostravano le dune mobili avanzanti verso il fortino, si pensa ad un miraggio. Sulle carte là dove era segnata la steppa, oggi si legge, come per le nostre terre: Casa Fortunato o Casa Catallo. Era il deserto un ingannevole miraggio. I tecnici erano perplessi ai primi studi, pensavano che l’estendere l’agricoltura oltre l’oasi sorreggendola con nuovi pozzi da aprire, fosse causa di impoverimento dei pozzi preesistenti nell’oasi. La sabbia non era che una femminile astuzia della bella terra che sotto si celava. Ad ogni primavera la steppa fioriva di fuggevoli fiori, ed erano il presagio del tesoro nascosto. Qualche tenace italiano, di quegli italiani ostinati a estrarre il fuoco dal ghiaccio, volle tentare l’impresa, difese la steppa dal vento sabbioso, cercò l’acqua, imbrigliò le dune mobili, e seminò: la terra diede il suo frutto.
Il deserto era un ingannevole miraggio, avevamo la terra, la vera terra da lavoro, seducente, nascosta sotto il velo di sabbia. Era stata tanto ampiamente diffamata questa terra, che la buona notizia non riuscì a fare che poca strada in Italia. E fu un bene, limitando l’afflusso di gente pronta all’avventurosa impresa, che da sola avrebbe finito col massacrarsi per debiti ed errori. Dopo l’eroica esperienza individuale, subentrò la colonizzazione organizzata e studiata dallo Stato: l’attuale, che ci fa nuovamente conquistare questa terra, come terra produttrice. Riemerge la terra e si fa folta di alberi e verde di biade, oltre la mitica oasi, divenuta, quasi superflua, quasi un semplice tono di colore per indicare che questa è terra africana. E al nuovo estendersi della terra corrisponde il nuovo crescere della città, un tempo limitata alla città indigena, oggi tutta dischiusa come un ventaglio, un vasto ventaglio bianco. Adorna di statue, di fontane, di giardini, di chiese, di piazze, di portici, di un’architettura giusta, un’architettura nostra che ci conferma per l’attimo del camminare, di essere in terra nostra.
Tripoli grandeggia, senza gonfiarsi, perchè tutta la sua consistenza sta in un avvenire in tenace formazione, laborioso, ma che non potrà mancare ad una sicura grandezza, fuso con una vasta terra imminente e pronta a compensare la fatica col frutto, Giovanni Comisso

File: PDF, TESTO

Collezione: Diorama 22.02.39

Citazione: Giovanni Comisso, “Tripoli la grande,” Diorama Letterario, ultimo accesso il 10 maggio 2024, https://dioramagdp.unito.it/items/show/2514.