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Titolo: Varietà

Autore: Ugo Betti

Data: 1939-03-29

Identificatore: 1939_110

Testo: Varietà
Che cosa veramente sia Roma, sedato lo stupore delle sue splendide pietre, dimenticato l’oro delle sue patine, arriviamo a sospettarlo dall’insoddisfazione che ci lasciano i ritratti di essa con cui tentiamo di padroneggiarla: un po’ tutti in realtà parziali, frettolosi di arrivare a una cifra, quasi per sistemare la cosa in biblioteca, umiliata a leccornia letteraria; e intrisi spesso, questi ritratti, se non di magnifica retorica — vizio caduto e rovesciatosi nel suo contrario — di un pittorico non troppo migliore del vecchio pittoresco, industria cioè di rifare con parole asciutte o grasse il segno delle acqueforti, la pennellata degli oli.
Il vero carattere di Roma mi sembra sia cosa non afferrabile da codeste pennellate e quadri, risultando esso, piuttosto che agli occhi, all’animo, che ne ha inquietudine dapprima, e poi calma: e consiste in una sorta di sguardo che posa su noi la città, stranamente indulgente, ma insieme lento per non so che alta noia. Sembrerebbe talvolta pietrosa indifferenza, ma non è. Uno sguardo, su noi, troppo tranquillo, che già ci conosce, per quanto improvviso e baldanzoso sia il nostro accostarci, e quasi ci trascura: poiché ci accorgiamo, non senza umiliazione, che sembra fisso non proprio a noi, ma quasi dietro le nostre spalle, laggiù; sicché anche il nostro pensiero finisce per staccarsi dalle cose nostre e di adesso, andando verso quelle passate e future. Emergono, fra le case, rupi grotte e ossature terrestri quali le vide in questi posti, quattromila anni addietro, l’occhio del pastore errante. La mole della città, col peso di tanti secoli e muri, non è riuscita a schiacciarle. Ma neanche quei secoli e quei muri furono potuti schiacciare dai secoli e dai muri venuti dopo. Travertino di mille anni e di ieri; ruderi rossastri e sopra essi pini, e poi tombe, e sulla tomba romana la medioevale e sopra esse parole così durature e umane che potrebbero essere scritte domani per noi; mattoni su mattoni, posti da muratori gli uni vivi al nostro fianco, gli altri fatti ormai polvere di polvere; la colonna fiorita del Rinascimento riscolpita dentro l’antica colonna ed alzata sopra lo stesso piedistallo; la cupola dei Papi sulla basilica degli imperatori; l’obelisco abbattuto e risollevato, ed ancora abbattuto ed ancora, con nuove iscrizioni, risollevato sopra uno sfondo di norcinerie e trattorie vigilate dalla padrona sull’uscio; alto suono di armi viventi e silenzio di pietre rovesciate, abitate da gatti. Non contrasto pittoresco, ma naturale e tuttavia inquietante stratificazione. Nulla fu abbastanza forte o abbastanza ingrato da cancellare la forza di ciò che lo precedette; ma tutto fu così forte da resistere a ciò che lo seguì, e da restar vivo in lui, dandogli norma. Nessun carattere o epoca vittoriosa, ma ognuna respinta e persuasa ad essere il piedistallo di un altro carattere e di un altro tempo: e, a noi stessi, promessa una sorte non diversa, con niente di totalmente nostro, ma nostro e di altri che scomparvero o che verranno. Sicché il carattere di Roma, in un certo senso, è la potenza di non averne nessuno, e di poter legare tranquillamente, in un ritmico e libero respiro, l’antico marmo color miele, e il caro quartiere senza bellezza né memorie dove io vivo, e gli squallidi casoni che vedo, di là dal fiume, verso ponte Milvio, vivi anelli anche essi di questa catena umana; di potere tranquillamente inghiottire, in un sereno brusio di corso d’acqua perenne, anche il gridio di queste donne al mercato, o questi squilli di fanfara.
Voglio dire che Luxor è i Faraoni, Pompei i Romani, Pittsburg l’America. Ma qui no: né i Romani né i Papi, né gli Etruschi né i Re, né gli artisti né i Santi, né l’Ottocento né la Rinascita, né le pietre né i libri, né gli altri, forse, né noi: Roma mi pare qualche cosa in cui tutto ciò entra come man mano le vene delle sorgenti nel fiume che empie di suono la valle. Vorrei dire, umilmente, perché fosse evitato il turgore che talvolta arrotonda e rende vuota questa parola, che è realmente, Roma — sola città nel mondo — la storia.
* * *
Leggo spesso, con molto profitto, un giornale sindacale di Torino, scritto per lo più da operai, i quali, al loro nome, nella firma, fanno seguire: operaio metallurgico, operaio legatore, collaudatore, ecc. e scrivono generalmente di « salario ad economia o a cottimo » oppure di « contributi integrativi », ma non di questo soltanto. Non dico che anche qui non s’insinui, qualche volta, un tantino di retorica. Ma in genere mi ferma, mi sorprende direi, la concretezza dei sentimenti, la semplice solidità dei ragionamenti, la chiarezza, l’efficacia. Che bellezza, un uomo che parla di cose che veramente conosce e che veramente lo interessano! Mi sono ricordato, leggendo, d’un mio antico pensiero: che tutto lo stile di questo mondo, in conclusione, si riduce a dire nel modo più breve e chiaro quelle sole precise cose che interessano insieme noi e gli altri. E forse il guaio è stato questo: che per molto tempo il da fare di parecchi di noi scrittori è stato di dire nel modo più arzigogolato e oscuro quelle sole e precise cose che interessavano esattamente nessuno. Non chi doveva leggerle, ma meno che mai evidentemente — e questo è il bello — chi le scriveva.
Ugo Betti

File: PDF, TESTO

Collezione: Diorama 29.03.39

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Citazione: Ugo Betti, “Varietà,” Diorama Letterario, ultimo accesso il 21 novembre 2024, https://dioramagdp.unito.it/items/show/2527.