Beta!
Passa al contenuto principale

Titolo: Panzini georgico

Autore: Lorenzo Gigli

Data: 1939-04-12

Identificatore: 1939_125

Testo: Panzini georgico
L’ultimo colloquio con Panzini fu un cordiale conversare, a proposito del Bacio di Lesbia, intorno a un paesaggio di linee grandiose e di toni da idillio; familiare paesaggio incastonato negli orizzonti gardesani che Catullo spiava protendendo rocchio dall’estrema roccia della verde Sirmio, gemma delle penisole. Catullo fu il primo dei poeti che illustrarono quel dono caduto dal cielo nella coppa argentea del lago; e Panzini fu l’ultimo suo biografo, o se si vuol meglio l’ultimo cronista del suo mal d’amore. Ma come non s’intenderebbe questo libro panziniano intitolato alla mendace Lesbia senza metterlo all’attivo del senso del paese e della sua storia ch’era connaturale all’indole, al carattere e all’educazione dello scrittore, così non si può scindere nessuna parte dell’opera sua da quell’umor peripatetico di ottocentesca origine che fu, per molti letterati, dallo Stecchetti ad Alfredo Oriani, un’eredità del romanticismo e che si sfogava, quando le strade non erano asfaltate e sulle lucide piste non correvano a rompicollo le otto cilindri, pedalando a cavallo della lucida bicicletta. Panzini fu anche lui un ciclista degno della sua epoca, e viaggiò durante i mesi estivi per esplorare i cantucci più pittoreschi e remoti delle contrade centroitaliane e scoprire tipi umani e costumi e tradizioni da ragionarci su e trame partiti morali, secondo lo portava il suo estro di filosofo estemporaneo e di scrittore nutrito di succhi robusti; che, si sa, discendevano in lui dal grande albero carducciano e si nutrivano di ricordi, esempi e insegnamenti illustri. Gli furono maestri, all’Università di Bologna, appunto il Carducci e quel sottile e angelico chiosator di Platone che fu il calabrese Francesco Acri, il quale faceva lezione passeggiando lungo le logge e per i cortiletti dell’Ateneo bolognese nella vecchia e silenziosa via Zamboni. Anche Panzini era uscito da quella fucina; come n’era uscito, fra i tanti, Adolfo Albertazzi, un altro bel narratore, che quando morì si disse che spariva con lui l’ultimo carducciano. Codesta qualifica si dovrebbe oggi ripetere per Alfredo Panzini, sebbene in un senso un poco diverso, allusivo se mai più alla sostanza ideale della sua arte che alla sua formazione di scrittore, trattandosi d’uno scolaro Sui generis, attento alle voci dell’anima e della cultura e alla continuità della tradizione. In essa egli sempre venerò l’inesausta riserva delle nostre correnti vitali nei campi della poesia e del pensiero, senza che per questo gli venisse mai meno la curiosità di « tutto vedere » ch’era la chiave del suo carattere e il sale della sua scrittura. I primi libri che lo rivelarono, a una minoranza di lettori attenti, furono precisamente libri di divagazioni su paesi e costumi italiani, prese di contatto con l’umanità attraverso vagabondaggi tipici, viaggi non più intorno al proprio cervello o alla propria camera, ma spaziando così nella storia della civiltà e del costume come nella geografia; che il Panzini poi, senza mettersi sulle orme delle complicate allegorie del padre Bartoli, trasportava per conto suo al morale. Le Piccole storie del mondo grande, la Lanterna di Diogene, il Viaggio d’un povero letterato sono, fra i trenta e più volumi ch’egli pubblicò, le cose che lo rappresentano intiero, qualità e difetti, ala di poesia e pignolismo polemico, virtù d’osservatore e di moralista e aerea chiarezza di stile, malinconia, ironia, inquietudine e tenerezza. Non si infilano parole per derivarne una formola; si stabiliscono soltanto alcuni punti di riferimento che risolvono l’uomo Panzini nello scrittore Panzini, dànno cioè della sua arte una ragione umana. Perchè egli si donò intiero e si calò intiero nelle sue fantasie; e non potremo mai rileggerne una pagina senza rivederne di colpo il volto largo ed aperto, solidamente costrutto, arguto e severo nel tempo stesso e illuminato dall’inconfondibile luce dell’intelligenza italiana.
In tutto ciò ch’egli scrisse, anche nei libri meno felici, sin nei pretesti d’articolo per giornale, Codesto lume dà guizzi: qua è uno spunto offertogli ancora dal gusto della strada maestra (una carovana di zingari... un gregge ed un cane... due donne ad una fonte... un asinelio che raglia... ); là un motivo che si presenta bell’e orchestrato dalla natura nel ciclo d’un’ora o d’un giorno o d’una stagione e non c’è che da immetterlo nello schema panziniano del tempo felice, quando il vagabondare per le strade consolari o su per le ripide dell’Abetone e della Verna era un privilegio scontato in anticipo con duri mesi di studio e di rinunce.
Ma furon quelli gli anni del migliore Panzini; e sempre poi gli rimase memoria delle esaltanti solitudini e delle mute confessioni con le stelle cadenti. E sempre durò in luì l’amistà per la terra, professata con sentimento vergiliano: la terra madre di biade e d’armenti, pingue e solare, che non è sfondo ma protagonista, e dà pane in cambio del sudore a chi la lavora e desta poetici pensieri in chi la contempla con occhio pio e pacato, non percorrendola a 130 all’ora ma premendola passo per passo con la suola delle scarpe chiodate.
Amicus ruris. Il trentacinque per cento degli italiani è di gente rurale; e Panzini se l'avvicinò un giorno per reazione contro la tirannide del secolo meccanico e contro la frenesia della velocità, subito vi si trovò così bene che volle per sè un campicello e, calcatosi in testa un cappellone di paglia dalle ampie tese, si dilettò di fatiche agresti, potando rametti e piantando frutta ed ortaggi in vista del mare di Romagna, ch’era stato uno degli amori della sua giovinezza.
Così la terra consolò gli ultimi anni di Alfredo Panzini e gli fu benigna di frutti anche morali. Così i contadini romagnoli che guidano ancora nei solchi i bovi dalle corna lunate come venti secoli or sono, gli si avvicinarono con la semplicità ch’egli aveva alquanto revocata in dubbio in uno de’ suoi libri più famosi del dopoguerra; ma era anche quella, a suo modo, una dichiarazione di lealismo e di confidenza. E, dopo, vedemmo Panzini tornar dai campi tenendo nelle mani gli aurei libretti dell’antica saggezza e poesia, e tradurre il poema esiodeo delle opere e dei giorni; e, deus nobis haec otia fecit, introdurre una sua poetica della terra in quei Giorni del sole e del grano che costituiscono nei caratteristici toni panziniani uno dei più suadenti elogi della vita rustica.
Lorenzo Gigli
Panzini a Bellaria
Nel giardino della sua casa

File: PDF, TESTO

Collezione: Diorama 12.04.39

Citazione: Lorenzo Gigli, “Panzini georgico,” Diorama Letterario, ultimo accesso il 17 maggio 2024, https://dioramagdp.unito.it/items/show/2542.