Il duello di Scanderbeg (dettagli)
Titolo: Il duello di Scanderbeg
Autore: Girolamo De Rada, Vittorio Gualtieri
Data: 1939-04-19
Identificatore: 1939_133
Testo:
Il duello
di Scanderbeg
Girolamo De Rada, nato nel 1814 a Macchia Albanese, frazione del Comune di San Demetrio Corone in Calabria, morto quasi novantenne nel 1903, appartiene a quei gruppi albanesi che dal Quattrocento in poi, per sottrarsi al dispotismo turco, si rifugiarono nell’Italia meridionale e là vissero tramandando di generazione in generazione la loro lingua e i loro costumi, in fraterna comunione di spirito con gl’italiani dei quali divisero gl’ideali, le speranze, le sorti sino allo storico conclusivo evento di questi giorni.
Può il De Rada considerarsi il più illustre rappresentante della letteratura albanese moderna, alla quale diede parecchie opere di poesia e una tragedia, nonché un’autobiografìa stampata a Cosenza nel 1898. Studente a Napoli e scolaro per breve momento del Piloti, il giovane albanese prese parte ai movimenti politici dell’ora e soffrì anche persecuzioni; più tardi si appartò in una solitudine aspra e sdegnosa e chiuse i suoi stanchi giorni poverissimo nel villaggio natio.
Nel 1836 egli aveva già pubblicato un poema, una specie di romanzo lirico intitolato I canti di Milosao, che è in fondo il diario dell’amor giovanile del De Rada per la figlia d’un pastore. Del Milosao abbiamo una traduzione italiana di Vittorio G. Gualtieri, pubblicata soltanto nel 1917 ma eseguita vivente il De Rada, il quale l’approvò.
Col Milosao, avverte il Gualtieri, offriva il De Rada agli albanesi « la prima opera d’arte riflessa che fosse stata scritta nella loro lingua materna ». Successivamente il De Rada pubblicò: Quattro storie d’Albania, novelle romantiche; i Canti di Serafino Thopia, poemetto più volte rimaneggiato, specie di diario lirico d’una immaginaria principessa albanese del secolo XV; la tragedia I Numidi più tardi rifatta in Sofonisba; il ciclo di concezioni epicoliriche intitolato a Scanderbeg (da notare però che l’eroe è più che altro un simbolo comprensivo dell’intiero poema e appare in tutta la sua statura in un solo episodio); e infine Uno specchio d’umano transito, rifacimento radicale dei canti di Serafina Thopia.
Per completare questo profilo di Girolamo De Rada riproduciamo la versione del Gualtieri d’un passo del canto IV del libro IV di Scanderbeg in cui si narra il duello sostenuto dall’eroe albanese con due tartari che l’avevano provocato per istigazione del figlio del sultano Amurat presso il quale, in Adrianopoli, Scanderbeg si trovava come ostaggio. Il De Rada mostra in questa scena come sapesse elaborare epicamente i materiali offertigli dalla storia integrandoli con elementi fantastici, quali le macabre bandiere fatte di pelli umane disseccate, la cui idea gli fu probabilmente suggerita da ciò che Erodoto racconta degli Sciti:
... Risuonò allora di contro una tromba, ed un’altra più cruda risposele, e tutti si ruppero allora i parlari.
Cadde un velario, e a tutti imbiancaronsi i volti fino a’ lontani più, ne’l tossico de la feroce attesa; e i cuori rimosse il pavore ne’ petti.
Or ecco, accolti da mani percosse ne l’alto, entrarono pallidi due Tartari, con simili ad ombre
nere i vessilli. Ma quelle nere ombre non erano, sì pelli, con pendule lor mani, di cavalieri
che uccisero essi. Ardenti i destrieri scoteano
le cervici, spumanti ai freni le bocche, nitrendo
e scalpitando. E tosto a la porta che apriasi di contro
le turbe si volsero; e solo su 'l suo buon cavallo entrò
l’Eroe d’Albania, e, preso suo posto, piantò
la bandiera con l’aquila da l’ali ampie aperte, già
signora de la Terra, e a lato le stette. Ma i suoi
soldati che lo videro solo là, solo e straniero
a tutti, il viso impallidente a l’offesa
de’ biechi sguardi, percossero forte i tamburi
da l’una banda a l’altra, a sollevargli il cuore
contro l'intero mondo; e sopra e da lato, dovunque
gli eran nemici, impallidirono. Ma
pensò egli: quell’aura propizia ch’or da compagni
venivagli, ben era de’ suoi nemici, che forse
l'avrebbero domani per sè ritolta, straniero
a tutti essendo. Soltanto, sì, custodirebbelo il suo
Dio cui seguito avea orfano e sciolto da tutti, cui pregavan, nei templi de la Patria, la madre e i parenti.
E disse: — Quegli il Sole de la casa ove nacqui, e costoro erba ch’ei fece e disseccherà. — E sollevò la mano, e si segnò, che tutti lo videro, figlio di martiri essendo, nel posto or di essi. Disfavilló, livido, d’ira Amuràt, e dietro agli sguardi del figlio, tutti gli sguardi de la turba si volsero a lui.
Ma già l’uno de’ Tartari, tardandogli troppo l’attesa del periglio, che l’ima vita nel cuor sommoveagli, spronò il destriero addosso all’Eroe, pur senza l’invito de le trombe, ed il plauso coperselo de’ cavalieri.
Si scosse l’Eroe; e come leone che sente
il nulla del vento che turbagli sopra le cime, lanciossi a ferirlo, così conculcando il dispetto
di tutti. E appena si vennero presso e gli scudi
Vaste ferirono, il Tartaro ne lo spavento
sentì de le viscere trascorrersi gelido il ferro, e tutte le cose, pallide ne la morte confondersi
vide. Qui giunse (tardi! ) l’altro, di sopra a l’Eroe
l’arma estollendo, ma balzò da l’assalto e impennossi
del bene avventurato il destriero, e la punta mortale
ne la cervice accolse. Al cielo, seno del giorno
e de la vita che salva eragli, gli occhi levò, levò gli occhi l’Eroe, e da 'l pensier che ne trasse
d’esser fatato, in piedi saltò acre, e tremò il suolo intorno.
Or la spada sua damaschina, levata sul nemico omai solo, furente oltre il ciglio il destriero colpì del nemico, e giù l’orecchio spiccatone al suolo, al ginocchio
ferì il cavaliero, e in due giù partita la sella
il largo ventre al giumento con lunga vermiglia ferita
aprì... Balzò il cavallo, il capo nel freno, ed il corpo
verso i portici gremiti esagitando. Ma spenti
gli occhi già, le intestina che ad ogni passo allungavansi, le zampe intricovvi e squarciolle, ond’ei ritravolse gli occhi
e stramazzò, sotto di sè il cavaliere ingombrando.
E su correagli acre l’Eroe, con la spada foriera di pianti; ma più ratta la pelle de la bandiera, pur come intelligente, caduta addosso al vinto, col cieco capo sul capo, sembrò con le mani stecchite rattenerlo: onde, intorno, un orror cupo gittò...
— Non ucciderlo! Tregua! — impose Amuratte all’Eroe.
Udì quegli, e si volse, mitigando la gioia che in volto imporporavalo, e torse al suolo la punta grondante...
Allora le schiere de l’esercito ch’ebbelo duce clamanti affollaronsi tra i colonnati, a baciargli la man sull’arena, festose... Il Sultano, da l’alto, con piene le mani piovea scudi d’oro ai fedeli.
Girolamo De Rada
(versione di Vittorio G. Gualtieri).
Scanderbeg
Collezione: Diorama 19.04.39
Etichette: Girolamo De Rada
Citazione: Girolamo De Rada e Vittorio Gualtieri, “Il duello di Scanderbeg,” Diorama Letterario, ultimo accesso il 21 novembre 2024, https://dioramagdp.unito.it/items/show/2550.