Una conquista (dettagli)
Titolo: Una conquista
Autore: Adriano Greco
Data: 1932-06-15
Identificatore: 1932_273
Testo:
Una conquista
Pioveva sul ghiaiato del giardino pubblico, fra gli alberi, un soleva chiazze: l’ultima fatica del sole per quel giorno. Davanti a me, c’era una signorina risecchita, con certi riccioli setolosi che sbordavano come cirri dal cappelluccio rotondo di paglia. E in sua compagnia una bimba: bionda, aggraziata, con due gambette nude, altissime, diritte, che pendevano dalla panchina di pietra con una compunzione chi sa se nativa o meditata.
Guardava la bimba distrattamente d’intorno come se i giochi delle barche nelle vasche vicine non la riguardassero affatto. A tratti la matura accompagnatrice le rivolgeva la parola in lingua straniera, e quella rispondeva pronta, ma in punta di labbra, come a togliersi una inevitabile noia: poi si drizzava in piedi, di scatto, si stirava il vestito indosso, quasi fosse stata dinanzi ad uno specchio, e tornava a sedersi.
Lolli — chiamò una voce.
La bimba fece colla mano un gesto vago nell’aria e non rispose. Preferì restare a discorrere colla signorina, anche quando un ragazzetto le si parò davanti e la chiamò di nuovo con confidenza.
— Lolli....
— Ich will nich spielen heute.
Il ragazzetto aveva un’aria sfacciata e arguta. Si curvò in avanti, appoggiò Te braccia sulle ginocchia come se avesse atteso che qualcuno gli fosse saltato sul groppone. Poi, alzando un poco il viso verso l’alto, fischiettò due note interrogative.
Allora la bimba fece una nuova smorfia di sopportazione e tradusse:
— Non Voglio giocare oggi.
— Pfui! — disse il ragazzetto con disdegno e si allontanò camminando all’indietro alla buffona. Arretrò fino ad un albero e di lì si mise a tirar sassolini in aria cercando di far cadere una larga foglia pendula e gialla di castagno, a pochi metri d’altezza. Ma io lo vedevo guardare con la coda dell’occhio la bimba, che non si curava di lui e rideva talvolta con dei piccoli trilli acuti, forse per farsi sentire.
*
Altri due ragazzi si avvicinarono al primo. Due fratelli si sarebbero detti da certi eleganti calzoni a sbuffo che avevano, eguali nella linea e nel colore; uno d’essi recava in braccio un grosso pallone di cuoio. I nuovi venuti quasi subito si voltarono insieme e fecero alla bimba colla mano un saluto. Quella rispose.
I tre ragazzi rimasero a discutere.
— Se non vuol venire, pfui! — disse uno.
— Certo.
E si diedero a ridere forte. Giocarono al tiro a segno, poi fecero su una panchina il braccio di ferro, poi Si diedero a correre, a due per volta, alternativamente, mentre il terzo segnava il traguardo: ma non riuscirono a mettersi d’accordo sulla proclamazione del vincitore. Allora uno dei ragazzi coi calzoni a sbuffo s’allontanò, fece un largo giro intorno alla vasca come se avesse avuto bisogno d’uno svago solitario e poi all’improvviso tornò sui suoi passi e s’avvicinò alla bimba.
Questa volta parlarono sottovoce e non riuscii ad intendere le loro parole. Vidi soltanto la bimba battere un piedino per terra nervosamente. Vidi la signorina che la redarguiva con un certo cipiglio puritano e deciso e il ragazzo che se ne tornava scornato. Ma prima di tornare con gli altri, compì nuovamente attorno alla vasca un giro e mise le dita nell'acqua, passando.
Ricominciarono a giocare. Fecero sul ghiaiato due segni ad indicare una porta immaginaria e poi si distribuirono i compiti: uno a difender la porta, gli altri due a scaraventare coi piedi il pallone cercando di superare la difesa. Altri due ragazzi vestiti più dimessamente si unirono al gioco e i primi li accolsero senza disdegno. Stava in porta quello coi calzoni a sbuffi e si difendeva con maestria, a pugni chiusi, sporgendo il petto in avanti, respingendo il pallone col piede, saltando, sudando, come un piccolo gatto.
— C’è un muro! — gridava. E ad ogni calcio sbagliato dei suoi avversari tirava fuori la lingua, la sporgeva da un lato della bocca, in uno sberleffo animalesco ed arguto.
Ma non durò gran tempo il gioco. Ché ad un tratto il fratello s’avvicinò fino a pochi metri dalla porta e gli scaraventò un pallone addosso con forza, colpendolo al viso. Quello s’abbiosciò a terra subito e poi si sciolse in un gran pianto disperato, torcendosi, e si copri con le mani la parte dolente.
Gli altri gli andarono intorno. Ma il portiere, allora, quasi fosse stato preso da un improvviso furore, si diede a scalciare e li tenne lontani. Poi si drizzò ad un tratto e si avventò contro il fratello. Quattro, cinque colpi sul capo, una tirata maligna ai capelli, e poi calci ancora, a lui ed agli altri, che facevan le finte di voler rappacificare i duellanti. In breve, prima che si intervenisse a sedare la zuffa, il feroce portiere aveva fatto piazza pulita, e non piangeva più e non si ricordava più d’aver pianto, e guardava gli avversari con insolenza e guardava con disprezzo il fratello, che s’era rincantucciato lontano piangendo a sua volta.
Il vincitore ora pareva tranquillo. Passeggiava fieramente dinanzi alla panchina su cui era seduta la bimba e pareva che s’aspettasse da lei qualche segno d’amicizia. Infatti la bimba gli porse un fazzoletto perché si pulisse il viso sporco di terra. Mi parve anche che la smorfiosa gli sorridesse, a quello sbaragliatore di mocciosi.
Lentamente, strascicando i piedi, sull’ultima chiazza di sole, arrivò un mendicante cieco. Portava appesa al petto una assicella con una ciotola di semi salati. Era brutto e triste a vedersi: con le borse degli occhi che gli ciondolavano e lasciavan scoperte due pupille gelatinose che pareva gocciassero sangue. Biascicava con le labbra forse qualche dolciume e tratto tratto col dorso della mano si tergeva la bocca.
Allora un ragazzo — quello che per primo aveva chiamato la bambina per nome — si mise a girargli attorno con aria birba. Non capivo bene che cosa cercasse, e lo guardavo curioso.
— Stai attenta, Lolli — gridò.
Lo vidi curvarsi su se stesso, cavar di tasca un temperino, aprirlo con fatica coi denti e poi segare dalla giacca il filo d’un bottone. Allora alzò questo bottone perché tutti lo vedessero, e si avvicinò al mendicante. E, come se fosse stata una moneta, lasciò cadere quel dischetto d’osso forato nella ciotola del vecchio.
— Tenete — disse.
Poi abbandonò l’aria compunta del benefattore e scappò ridendo. Ridevano tutti i ragazzi.
« Anche alla bimba doveva esser piaciuto quel gesto sbarazzino e volgare, se poco dopo, abbandonato il vincitore di poc’anzi, la vidi allontanarsi col mariolo. Conquista fatta.
Adriano Grego.
Collezione: Diorama 15.06.32
Etichette: Adriano Greco
Citazione: Adriano Greco, “Una conquista,” Diorama Letterario, ultimo accesso il 21 novembre 2024, https://dioramagdp.unito.it/items/show/529.