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Titolo: Ricordo di mastro Geppetto

Autore: Alberto Cecchi

Data: 1931-06-10

Identificatore: 53

Testo: CINQUANTENARIO DI PINOCCHIO

Ricordo di mastro Geppetto

Pinocchio sta per compiere i cinquantanni: una bella età, l’età come dicono della discrezione, anche per un burattino. Ma. c’è da pensare che questo personaggio, nato da un pezzo di leggo stagionato, è divenuto poi « un ragazzino per bene » non solo, ma una creatura immortale, la quale avrà sempre, per moltissimi anni ancora, l’età medesima che hanno i figliuoli di quelli che un tempo lo conobbero e lo amarono: e dei figliuoli dei figliuoli, e così via. Motivo per cui — come, nel suo stile, direbbe Collodi — noi continueremo sempiternamente a vedere Pinocchio nell’aspetto di un fanciullino provveduto « di un vestituccio di carta, fiorita, di un paio di scarpe di scorza d’albero e di un berrettino di midolla di pane ».

Quanto a suo padre, detto Polendina, o anche Collodi o anche Carlo Lorenzini, quando si mise a scrivere le avventure del figliuolo stava per toccare i cinquantacinque anni; età nella quale anche i più entusiasti degli uomini hanno concluso con la vita una sorta di concordato, e non più pretendono o sperano che essa mantenga le promesse largamente fatte al tempo della gioventù; età nella quale i valori delle cose sono oramai fissati una volta per. sempre, e si conoscon bene quelle cui si possa ancora dar credito. Cose povere, semplici, nient'affatto brillanti, ma nella loro oscurità sostanziose, dolcemente miserabili, teneramente familiari. E’ il tempo in cui le donne perdono ogni incanto per l’anima dell’uomo che ha molto camminato, non ci sono più bocche dolcesorridenti nè occhi magici, e il mistero che in loro amavamo cercare si è per sempre disvelato, svanito, confessato inesistente. Ed anche il denaro, che è l’altro signore del mondo, ha perduto qualche poco del suo luccicare, del suo pazzo potere.

Ogni cosa diventa a quel punto quella che immutabilmente e realmente è: di ogni cosa si apprende il prezzo, quanto tocchi pagarla per goderla o soffrirla. Riconosciamo che di alcune non possiamo fare a meno, e quelle pòche ce le mettiamo nel cuore, dove le conserveremo fino alla morte. Sono davvero poche: la famiglia, i bambini, il lavoro, la tranquillità, l’onestà. Il cuore diventa un altro cuore, un cuore di vecchio uomo che non batte neanche più per quello che in passato fece sta' tanto male: e la coscienza diventa un’altra coscienza, più determinata e allo stesso tempo rassegnata.

Dunque, in quegli anni dell’ottantuno, quando nacque Pinocchio, il suo babbino ne aveva cinquantacinque, essendo nato nel 1826, a Firenze, in una casa di via Taddea. Era figlio di un cuoco, venuto da Cortona: e di una sarta, una Orbali, nata a Collodi, paesello della Valdinievole e frazione del Comune di Villabasilica: un gruppetto di case accantonato sopra un ramo di quel fiume Pescia che appunto prende il nome di Pescia di Collodi, e che dà anche oggi alimento a molte cartiere.

Per essere stato bambino in quell’angolo paesano e sperduto, per averci giuocato e vagabondato, le casette del borgo gli rimasero sempre assai care: fatto uomo grande e poi vecchiarello amava tornarci a lavorare, e alla fine scelse quel nome di Collodi per i suoi scritti, come pseudonimo. A quel modo firmò le sue prime cose sul Lampione, giornaletto che lui stesso aveva fondato nel 1848, quando fu di ritorno dalla campagna dell’Indipendenza, che aveva combattuta con fede e valore. Il giornaletto naturalmente fallì e solo molto più tardi, nel ’60, tornò ad uscire « ripigliando — era detto nell’articolo di fondo — il filo del nostro discorso interrotto dalle voci alte e fioche della reazione ».

Ma di questo non ’ parleremo: nè dei tanti altri giornali cui collaborò con onesta intelligenza. La verità è che egli era di sua condizione naturale un impiegato, un rond-de-cuir, di quelli che, per far credere alla continuità della loro frequenza in ufficio, lasciano un cappello appeso al chiodo, le volte che scendono a prendere un caffè al bar d’angolo. Era un burocrate autentico: e quella vita che aveva arrischiato nelle battaglie e nei vagabondaggi andava ora terminandola davanti a un tavolo coperto d’incerata, dietro una finestrella opaca.

Era dunque un uomo immobile, per il quale il mondo con i suoi agguati e le sue complicazioni era morto per sempre. Viaggi non ne faceva più se non con la fantasia, che era certo di gambe veloci e di cuore ardito, come le gambe e il cuore dei burattino di legno. Si può credere che il suo carattere fosse abbastanza simigliante a quello che s'intravede dietro l’aspetto fisico di Geppetto il quale, come ciascun sa, « era un vecchietto tutto arzillo che i ragazzi del vicinato, quando lo volevano far montare su tutte le furie, chiamavano col soprannome di Polendina, a motivo della sua parrucca gialla, che somigliava moltissimo alla polendina di granoturco ».

Se questa parrucca gialla la portasse anche lui, Collodi, non sappiamo: ma vorremmo credere di sì, e che anche « fosse bizzosissimo, diventasse subito una bestia, e non ci fosse più verso di tenerlo ».

Non risulta che abbia mai preso moglie, e mai è stato detto che gli fossero capitate avventure d’amore e casi di cuore. A buon conto, noi ce lo figuriamo solitario e magari scontroso: nè potremo mai prestar fede a chi ce lo venisse a dare per uomo molto socievole e chiacchierino: perchè se mai avremo da rispondere che quello di cui essi parlano era Carlo Lorenzini, mentre noi parliamo di Collodi. Il quale Collodi disse appunto un giorno: « Ora vo’ darmi a scrivere solo per i bambini. Gli adulti sono troppo incontentabili, non fanno per me! ».

* * *

E perchè mai stiamo ora parlando di lui noi, che egli stimava incontentabili, come siamo? Soltanto perchè, pensando al suo burattino, anche noi non vogliamo più avere a che fare con noi stessi, ma soltanto con quel fanciullo che un tempo siamo stati, dal vestituccio di velluto e dal berrettino con la penna di fagiano.

Era il tempo in cui il bizzoso Polendina, il vecchio mastro Geppetto ci conosceva molto bene. Eravamo noi che non volevamo dargli retta e che delle nostre mani ci servivamo per fargli tanto di palmo di naso: avevamo cuore, in quei giorni lontani, di lasciargli vendere la sua vecchia casacca di frustagno tutta toppe e rimendi a fine di comperarci l’abbecedario, e a cuore duro lo vedevamo scomparire all’angolo della strada, frammezzo a due carabinieri. Quanti sono stati i peccati che abbiamo allora commesso contro il Polendina che tutti poi abbiamo avuto, sebbene non si chiamasse Polendina e nemmeno mastro Geppetto, ma semplicemente babbo o papà, e la sua casacca, almeno all’apparenza, non avesse toppe nè rimendi! Allora non avevamo troppe cose da pensare, e le nostre voglie non andavano troppo in là: leggevamo la storia del burattino Pinocchio, e c’erano sere in cui invidiavamo le sue gambe di legno e il suo destino: ci schieravamo dalla sua parte, contro Geppetto, gli tenevamo mano, e con lui saremmo partiti volentieri alla volta del Paese dei Balocchi.

Soltanto più tardi abbiamo capito ogni cosa, soltanto più tardi abbiamo capito quello che il nostro fratello dal lunghissimo naso aveva voluto dirci attraverso le sue avventure, le sue grazie e le sue disgrazie. E adesso dobbiamo ammettere che veramente, se per mastro Geppetto non « facciamo più », adulti incontentabili, proprio adesso egli ha cominciato a « fare » per noi.

Le sue parole egli ce le ha date ad interesse, come succede per i denari che si mettono alle banche: e questo interesse ciascuno di noi lo ha pagato a una svolta della sua vita, al momento di dire addio per sempre a molte cose, al momento in cui pensavamo con compiacenza dentro di noi: « Com’ero buffo, quand’ero un burattino: e come ora son contento di essere diventato un ragazzino per bene! ».

Dicevamo, come Pinocchio, queste parole. Ma poi, ripensandoci, quella compiacenza svaniva: e cosa avremmo dato per tornare ad essere burattini di legno! Allora finalmente comprendevamo il bene che Polendina ci aveva voluto, quando il Polendina di ciascuno di noi era scomparso o era troppo vecchio per poterci ancora proteggere. Allora andavamo a rileggere il libro, e lacrimavamo alla morte della Bella Bambina dai capelli turchini: poiché conoscevamo che essa era morta davvero per noi, e con lei erano morte molte altre cose. E non volevamo più bene tanto a Pinocchio quanto invece a mastro Geppetto, e scoprivamo che quelle pagine erano state scritte, si, per i fanciulli, ma per quei fanciulli, per quel fanciullino che sempre continua a vivere nel nostro cuore, anche quando i capelli sono diventati bianchi.

Bianchi come quelli dell’uomo che quelle pagine aveva scritto. Se ne accorsero, di quel biancore, coloro che mandano, e lo misero in pensione. Poi morì, e sono ora quarantun’anno. Sebbene, questa parola « morì » sia vera soltanto in un certo senso. Egli è sempre così vivo, davanti a noi... sempre ce lo figuriamo come il suo diletto Pinocchio lo vide nel fondo della balena « davanti a una piccola tavola apparecchiata, con sopra una candela accesa infilata in una bottiglia di cristallo verde, vecchiettino tutto bianco, come se fosse di neve o di panna montata, biascicando alcuni pesciolini vivi, ma tanto vivi che alle volte gli scappano perfino di bocca ».

E’ lì che aspetta qualcuno. Aspetta quei burattini di carne e sangue che anche noi metteremo al mondo, e che saranno i nostri figliuoli.

Alberto Cecchi.

File: PDF, TESTO

Collezione: Diorama 10.06.31

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Citazione: Alberto Cecchi, “Ricordo di mastro Geppetto,” Diorama Letterario, ultimo accesso il 21 novembre 2024, https://dioramagdp.unito.it/items/show/53.