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Titolo: La lettera trovata

Autore: Francesco Chiesa

Data: 1932-08-03

Identificatore: 1932_349

Testo: La lettera trovata
Una sera il compagno Fibbia interruppe la solita conversazione intorno alla tavola con un « Ah, mi dimenticavo!... »; si trasse dal portafogli un pezzetto di carta azzurrognola e lo porse al signor Dimidio.
— Veda cosa ho trovato oggi in un volume della Biblioteca.
— E’ senza dubbio un frammento di lettera — disse il signor Dimidio con quella solennità sentenziosa che metteva anche nei minimi detti, né si capiva se facesse per burla o sul serio. — Lettera del signor Nonsisacchì al signor Nonsisacchì. Lecito quindi leggere, senza tema d’indiscrezione.
E lesse ad alta voce, accompagnandosi col gesto.
«... questa povera gente stupida che mi sta intorno. Questi angioli del paradiso!... Non un minuto di pace mi lasciano, questi demoni, né notte né giorno. Vogliono ad ogni costo farmi sentire come mi amano ed adorano, come hanno compassione della mia miseria, come muoiono dalla smania di consolarmi. Consolare! E’ possibile? E’, ad ogni modo, la cosa più difficile di questo mondo. Richiede due cose che di solito non stanno insieme: bontà e intelligenza. Il mondo è pieno di... ».
Il frammento finiva lì, senza dirci di che cosa il mondo è pieno. »
— Scommetto che, se la lettera non fosse stata lacerata a questo punto, leggeremmo: « pieno di bontà ». Bontà, uguale a debolezza, uguale a viltà. Nella matematica degli esasperati è un’equazione corrente. Scarsa invece, a questo mondo, l’intelligenza.
Cosi il signor Dimidio, che depose il foglietto sulla tavola e spiegò il suo giornale. Ma poi buttò via il giornale e riprese a parlare.
— Eh, già: intelligenza e bontà... Però io direi che queste due ottime cose servano non tanto a consolare quanto a essere consolati. Non vi pare?... O piuttosto: riuscite a capire? Capirete quando v’avrò raccontato un caso capitato a me, Dimidio Trampoli, trentenne ancora e da appena un anno sposo felice di questa mia inseparabile consorte.
La signora Tullia alzò verso l’abbondante parlatore quella sua faccia di buona moglie che pensa: come parìa bene mio marito e quante cose sa! Ma non era compiacimento scevro d’inquietudine, poiché l’ottimo uomo poco badava alle convenienze e non sempre sapeva distinguere fra le cose che si possono dire e quelle che conviene tacere. Ma ci voleva altro che una faccia supplichevole per trattenere il signor Dimidio quand'aveva preso l’avvio.
— Ci eravamo sposati da un anno o poco più, ed ancora non appartenevo all’inespugnabile ceto dei funzionari pubblici. Tenevo però i piedi sul solido, essendo impiegato stabile della Banca di San Luca, la più stimata, a quei tempi, se non la più importante della nostra città. Era una di quelle virtuose, patriarcali banche d’una volta, che rifuggivano da ogni speculazione rischiosa, contente del modesto lucro che si può conseguire lavorando nella cerchia angusta degli affari indubitabili. Una banca così, in una città come la nostra, piena allora di gente casalinga, più che un istituto è un’istituzione. Rappresenta la sicurezza e la fiducia, e risponde a quel bisogno di credere in qualche cosa, che è nel cuore degli uomini. Adempie perciò un ufficio non solo economico, ma anche morale e direi quasi religioso... Infatti, nemmeno a farlo apposta, il nostro direttore aveva tutta l’aria d’un buon curatone di campagna: paterno, affabile, non senza una certa durezza di mano. E la sede della banca, un vecchio casone demolito al tempo degli sventramenti, ricordava, anche nell’odore, il convento, la canonica, il luogo pio: certi androni, certi stanzoni, certi usci che si chiudevano a catenaccio; è quei quadretti dì vetro alle finestre, tenuti insieme da liste di piombo; e quel buoni ammattonato, così durò e freddo sotto i piedi. Ma la povera domestica che veniva a depositare il suo risparmio mensile vi camminava sopra con perfetta tranquillità.
Tutto questo per dirvi due cose: primo, che, essendo stato accolto in quella veneranda casa, mi sentivo cosi partecipe della sua dignità, cosi sicuro del fatto mio, così superiore al mio modesto stipendio, che non esitai un istante a secondare l’impulso d’amore appena si fece sentire; e, il giorno stesso del mio definitivo innamoramento, offersi a questa cara donna il mio cuore subito, ed una decente casetta tra qualche giorno, il tempo di prepararla. Non è vero, Tullia?
— Oh, Dimidio!... — gemé la povera donna, rossa come un pomodoro.
— Cosi è. Ma una seconda cosa volevo dirvi, assai meno lieta della prima; una cosa che, cari miei, se quel soffitto si spaccasse e cento diavoli piombassero a battere il deretano su questa tavola, non ne avreste la centesima parte della sorpresa che
ebbi io. Ma che dico: sorpresa! Sgomento, angoscia, persuasione d’essere impazzito... Statemi attenti. Una mattina si rientra in ufficio e si prende posto dinanzi alle nostre scrivanie, ai nostri leggii (io ero addetto, con cinque colleghi, al riparto Titoli), quando l’inserviente viene a dirci che tutti ci rechiamo, immediatamente, nel gabinetto del Direttore. Il Direttore ci accolse senza rispondere al nostro saluto e stette a guardarci con una ciera torbida e minacciosa che nessuno gli aveva mai veduta. Cosa succede? dico. E il cuore, ve lo confesso, mi martellava forte, benché la coscienza, rapidamente interrogata, mi ripetesse che nulla avevo da temere. Eh, c’è sempre da temere fin che si cammina per le strade di questo globo. E l’innocenza non è già una camicia che tutti possano vedere se è bianca o no. Il colloquio (diciamo colloquio) non durò molto. Si rientrò nel nostro ufficio, ma non per riprendere il lavoro interrotto. Per rispondere a mille domande, che tutte avevano un senso oltraggioso e ci erano rivolte in tono di minaccia. Poi, non so gli altri, ma io mi sentii dire che tornassi a casa e mi tenessi a disposizione della giustizia. Tornai a casa; ed alla mia povera Tullia, che mi corse incontro tutta felice di vedermi ricomparire prima dell’ora solita, dissi: — Non rallegrarti, Tullia. Sono sospeso dall’ufficio per un tempo indeterminato... Forse per sempre. Sono sotto inchiesta. E’ possibile che prima di sera mi arrestino... Non ho commesso il minimo delitto, s’intende. Ma questo non vuol dire nulla.
— Ma che diavolo era successo?
— Era successo che nel nostro ufficio (quello a cui competevano alcune delle funzioni più gelose e delicate di tutta l’azienda) si era diffuso un perniciosissimo morbo. Il Capo e qualche altro collega da tempo giocavano in borsa. E perdevano. E, per ritentare la fortuna, adoperavano i titoli affidati dai clienti alle cure della Banca... Senza la minima intenzione, s’intende, di rubare; con la ferma intenzione, anzi, di restituire appena la speculazione riuscisse. Ma non riusciva e... Voi mi capite.
— Ma lei, signor Dimidio?...
— Io? Innocente come l’acqua, già ve l’ho detto. Innocente e stupido, vero? Difatti, quel non essermi mai accorto di nulla... Rivedere tutti i giorni quel Capo, quegli altri due, senza saper leggere sulle loro facce il minimo segno dell’interno affanno... Però, cari miei, vi prego di considerare due cose: primo, che ero in piena luna di miele...
— Luna vecchia già d’un anno.
— Vecchia d’un anno e più, e nuova, lucente e piena come il primo sorgere. Secondo: che anch’io, ed io più di tutti, credevo nell’infallibilità, nell’impeccabilità della Banca di San Luca. Una fede, la mia, come deve essere ogni fede vera, la quale non solo esclude ogni dubbio, ma nemmeno immagina che ci possano essere dubbi... Una fede, lasciatemi dire, fatta a imbuto; che s’allargava a comprendere tutto quanto avesse relazione diretta o indiretta con la mia Banca. Tutto giusto, santo, indiscutibile, insospettabile: gli scalcinati muri dell’edificio, gli sgretolati pavimenti, i registri, i funzionari, dal Direttore all’ultimo scopatore...
Qui il signor Dimidio s’interruppe, e un curioso sorriso gli passò negli occhi.
— Oh, a proposito di scopatori... Alcuni mesi prima, era accaduto questo. Uno dei nostri scopatori (un giovinotto dolce e melenso, con due occhi chiari, vacui come a guardar attraverso una bottiglia in cui non c’è nulla) fu accusato d’essersi messo in tasca un biglietto da cento caduto sul pavimento. Indizi, ce n’erano, ma prove no. E fu assolto. Assolto anche un pochino per merito mio e della testimonianza che io resi, in favore di quel poveretto, quando fui chiamato a deporre. Assolto dunque; ma la nostra austera casa non volle riaccogliere un uomo assolto per pura insufficienza di prove, e nulla più si seppe di lui. Neppur io più ci pensavo, lontanissimo dal supporre che quel certo vecchietto che incontravo tutti i giorni, recandomi in ufficio, seduto su d’una panchina dei giardini pubblici e che, vedendomi comparire, si alzava, si levava il cappello e mi accompagnava con un sorriso tutto riverenza ed amore, potesse essere il padre dell’inserviente licenziato. Bastava interrogarlo; certo m’avrebbe risposto: lei è quel buon signore che ha dato una mano a quel mio povero figliuolo. Ecco perché le voglio bene... Nulla gli chiesi, e facilmente m’avvezzai a quelle scappellate e a quei sorrisi, come se mi fossero regolarmente dovuti. Forse pensavo: costui è un mio ammiratore. Chissà che non abbia letto qualcuno di que’ miei sonetti giovanili... E gli rispondevo con un cordiale sorriso.
Ed ecco che mi casca addosso la tegola che v’ho descritta: sospeso, sospettato di complicità coi ladri, chiamato di tanto in tanto a fornire spiegazioni. Tornavo appunto, una sera, dall’ufficio del giudice istruttore, quando mi trovai dinanzi il mio vecchietto che usciva dal cancello dei giardini pubblici. Mi venne incontro con una festa che nemmeno un cane quando ritrova l’amato padrone, si trasse di sotto la giacca due o tre rose gualcite, me le ficcò tra le dita e s’allontanò sussurrandomi col più dolce accento che io abbia mai udito: — Coraggio... coraggio...
Io rimasi lì come incantato con le mie rose in mano. Poi, a poco a poco, capii. Capii, innanzi tutto, che quelle rose il vecchietto le aveva strappate a un rosaio dei giardini pubblici. E capii la sua intenzione di dirmi: lei si trova oggi nella stessa condizione di quel mio disgraziato figliuolo... Anche a lei è capitata la sventura d’essere ladro... Accetti dal padre d’un povero ladroncello questo mazzo di fiori rubati.
Tutta la mia tristezza, ve lo giuro, si consumò in una potente risata. E tornai a casa (ricordi, Tullia? ) carico di consolazione. Ma per trasformare in consolazione una cosa come quella che m’era capitata, occorre, come vi dicevo, una certa dose d’intelligenza mista con una certa dose di bontà. Pensateci su e capirete.
Francesco Chiesa.

File: PDF, TESTO

Collezione: Diorama 03.08.32

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Citazione: Francesco Chiesa, “La lettera trovata,” Diorama Letterario, ultimo accesso il 21 novembre 2024, https://dioramagdp.unito.it/items/show/605.