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Titolo: Il cervo volante

Autore: Alberto Rossi

Data: 1931-07-15

Identificatore: 74

Testo: Il cervo volante

Steso sull’erba di un piccolo dosso, a dominio di un valloncello profondo, guardo il cielo e le nuvole traverso ai rami contorti di un pero.

Ed ecco, su dalla tenebra verde di quel burroncello lì sotto a sinistra, venir fuori un potente ronzio, e poi di lì a poco ecco apparire nella luce un che di biondo, di turbinoso, di veloce: un enorme insetto librato a volo, che s'avvicina ondeggiando, in arco di cerchio. E quando s’è fatto più presso, alle due grandi antenne profilate contro il cielo riconosco senza difficoltà un grosso cervo volante, di quelli che da bimbo qualche volta in campagna avevo visto catturati, nelle mani di un crocchio di contadinelli esultanti: essi lo legavano per un filo alla zampa, standolo a guardare poi mentre lo buttavano a volo. (Ó almeno, così mi pare proprio che andassero le cose. E mi sembra pure di ricordare di averne posseduto uno anch’io di quei favolosi animali, regalatomi per non so quale intercessione, e che lo nutrissi, o m’illudevo di nutrirlo, con l’erbetta più fine dei prati. Ma i miei ricordi di quei tempi sono alquanto incerti).

Questo volava diritto, verticale, con tutto il corsaletto elevato sopra le elitre turbinanti; e con le grandi corna, scientificamente « mandibole », appena inclinate in avanti. Sì da disegnare press’a poco nell’aria, di profilo, l’immagine di un cavalluccio marino. A certi tratti si teneva immobile, sospeso verticalmente a qualche metro da terra, con un gran rombo, come di apparecchio volante: poi dolcemente, velocemente, si spostava nell'aria in questa o quella direzione, come per uno scivolamento d’ala, per quindi riprendere la sua danza a pieno motore.

E io mi sorpresi a pensare come assai più che il volo di un uccello, questo del grosso insetto rendeva l’immagine di un apparecchio razionale, manovrabile a comandi, e imitabile dall’uomo: un apparecchio che risolveva il problema dell’elevarsi in volo verticalmente, del mantenersi immobile nell’aria, dello scendere a picco, lentamente, al punto voluto. E come forse i primi inventori avevano avuto torto affissandosi, per risolvere i propri problemi, nel volo degli uccelli, mentre invece nello studio di una tal macchina da volare totalmente diversa stava nascosto il segreto dell’avvenire, e della risoluzione di quei difficili problemi.

Comunque, e credo più che altro per quelle reminiscenze d’infanzia, m’era venuta voglia di veder l’animale più davvicino, possibilmente di farlo prigioniero. E mi ricordai di corse in aperta campagna, appresso a quel grosso scarabeo volitante qua e là, sin che stanco era costretto a posarsi su una siepe, su un arbusto, e qualche inseguitore buttandogli sopra un berretto riusciva infine a catturarlo, trionfante. Ma lì, anche ad aver voglia di correre, il che era tutt’altro che il mio caso, il terreno non si prestava per niente a una caccia di quel genere: precipitoso come subito diventava, e pieno di anfratti.

E il semplice movimento che avevo fatto per alzarmi, già mi parve avesse allarmato la bestiola volante, che si spinse più in alto e più in là, come portata da un riflesso dell’aria. Sicché fatto tacere quell’impulso avventuroso, me ne stetti di nuovo immobilmente steso sull’erba, a seguire con l’occhio le evoluzioni di quel volo, con la curiosità distaccata dello spettatore: e con la segreta speranza che lo spettacolo non finisse cosi d’un subito. Difatti, a un certo momento l’animaletto era sembrato allontanarsi, dalla parte donde era venuto, sino a scomparire: e già pensavo che la faccenda fosse finita, quand’ecco il rombo farsi di nuovo più forte e più vicino, e la grossa macchia fulva e turbinante riapparire, dirigersi di nuovo verso un minuscolo filare di piccoli salici nani, a pochi passi alla mia destra, aggirarsi alcun poco esitando li attorno, come in cerca di qualcosa che non trovava, e poi allontanarsi velocemente, come prima.

Per due e tre volte ripetè quel gioco, si che ora io, vedendolo allontanarsi e scomparire, non più rinunciavo a lui del tutto, come dapprima, ma stavo sospeso nella curiosità dell’attesa, se ancora sarebbe tornato. E ogni volta tornava, come se qualcosa di particolare ve lo chiamasse, in quel lembo di terreno appunto dove io m’ero messo disteso: per quanto che cosa precisamente, non c’era modo di indovinarlo. E per quanto la mia fantasia mi suggerisse l’ipotesi balzana che anch’io, o almeno la grossa macchia chiara rappresentata dalla mia persona, potessi aver parte in quell’interesse, tutta la parte positiva di me si rifiutava con un’alzata di spalle a solo trattenersi in quel pensiero. Ma intanto, quello andava e veniva, sempre allo stesso punto, si aggirava su quei pochi minuscoli salici, come soprappensiero: poi ripartiva.

Fin che. una volta, improvvisamente, si posò. Tra le fronde di uno di quegli arboscelli appunto, a pochi palmi da terra. Cautamente, trattenendo il respiro, mi avvicinai, a ogni passo temendo di vederlo volar via. Ma quello, mi accorsi, non se ne dava per inteso; era lì tranquillo, movendo pigramente le sue zampe con mosse incerte, come per assicurarsi un miglior sostegno: quasi fosse li ad aspettarmi. Sicché, io che avevo già pronto in mano il mio cappellaccio da montagna per buttarglielo addosso, allungai senz’altro due dita, e tra il pollice e l’indice lo presi per il corsaletto.

Si lasciò fare senza stupirsi, e senza nemmeno alcun tentativo di ribellione, quando si senti prigioniero. Lo posai in terra, e non si moveva. Solo se gli stuzzicavo con un dito, o un fuscello, le sue mandibole ramose, stringeva d’improvviso, ma senza gran convinzione: e subito la? sciava la presa, appena sentiva che non c’era sugo a stringere: ora il vuoto, ora uno stecco legnoso o la stanghetta di ebanite degli occhiali: da sole. Altrimenti, se ne stava lì immoto, come ancora ubriaco, intontito di aria, di luce, di sole dal suo lungo volo, lo intanto volgendolo un po’ da ogni lato consideravo quella magnifica macchina da guerra, tanto armata a offesa e a difesa, senza il menomo punto inerme, a giudicare così a occhio: e alla quale non mancava nemmeno un certo tocco di eccessivo, di raffinatamente bizzarro, come in certe armature giapponesi, per conferirle un che di quasi gratuito, e di misterioso. Uniformemente serrato nel suo corsaletto, articolato in due punti ben coperti, e tutto il delicato e complicato apparecchio del volo completamente a riparo sotto l’usbergo di due elitre duro come corazze. E così tutta la parte interna del corpo, protetta da una corazzatura più leggera a scaglie parallele. Anche quelli che parevano essere gli occhi, eran due escrescenze cornee ai lati del capo, non più vulnerabili del rimanente corpo. Gli organi dei sensi confinati, sembra, in certe bizzarre antenne articolate, munite di complicati aggeggi, sporgenti fuori dal capo, retrattili a volontà. E infine, oltre a quella gran tenaglia a sommo della testa, pronta ad afferrare e stritolare, ecco le lunghe zampe affilate, di dura materia lucida e nera anch’esse, flessibili nell’ultimo tratto e terminanti ognuna in due lunghi rostri, ricurvi, acuminati, fatti per traforare agevolmente quel corpo che esse stringano nel loro amplesso.

A che mai può servire, a che è stata creata, sì perfetta ed efficiente macchina da battaglia? Per combattere quali avversari, per debellare quali prede? Interviene qui disgraziatamente la mia ignoranza in fatto di entomologia. Non ho letto che alcuni volumi del Fabre, sulla vita degli insetti, e in quei volumi resistenza del cervo volante non era contemplata. Sicché rimarrò per sempre all’oscuro sulle misteriose vicende e lotte vitali di codesto mio prigioniero e della sua schiatta. Ma permane la mia impressione, di un che di gratuito e di eccessivo: che nella sua quotidiana vicenda, nella ricerca del cibo, non mai egli si debba trovare in presenza di nemici tanto potenti da giustificare quella concentrazione di mezzi armati.

©

Dentro al cappello mi sono portata a casa la mia preda, che d’altronde non ha dato il più piccolo segno di inquietudine o ribellione, né fatto il minimo tentativo di fuga, quando il fuggire le sarebbe stato facile. (O forse che la sua costruzione gli impedisca di pigliare il volo, così poggiato a terra? ). A giorni arrivano i bambini, e penso che troveranno gran materia di diletto nella presenza di questo insolito personaggio. « Legalo per una zampa e mettilo in un po’ d’erba, come facevi da piccolo », mi suggerisce mia madre. E io, adocchiata sul terrazzo una striscia di piantine verdi, accanto alla balaustra, ve l’ho collocato, legandolo stretto con un grosso filo a una zampa. Esso se ne sta lì, inerte, dove l’ho posato, con qualche pigro movimento se lo stuzzico. Poi, me ne vado.

Il mattino dopo, scorgo il filo allentato, ciondolante all’aria, e intuisco una fuga. Difatti, il prigioniero non c’è più. Sfilata la zampa dal nodo, è scomparso. Del tutto? Mi guardo attorno, vagamente. E allora, quando già sto per andarmene, ecco che lo scopro. Sotto una pianticella, nell’angolo più buio: sta lì fermo, con la sua aria testarda, come se avesse voluto solamente farmi un dispetto. Lo riacchiappo, e penso al da farsi. Mi sembra che il modo migliore e più sicuro sia di legarlo pel corsaletto, nel punto centrale e più sottile. E cosi faccio. Poi, lo ricolloco tra le fronde verdi, con la vaga presunzione che se ne abbia a nutrire: per quanto improbabile possa parere un tal cibo, per una simile creatura.

Di quando in quando, accadendomi di uscire sul terrazzo, gli vado a dare un’occhiata: il filo teso, che ho legato in alto alla balaustra, mi dà segno che esso è lì sotto, tra quel poco verde, tirando forte, a quella sua maniera quasi immobile e testarda, per liberarsi. A poco a poco, s’è inestricabilmente avvolto col suo filo attorno agli steli di qualche pianticella di asteri. E per di più, a forza di tirare, il laccio che lo trattiene gli è entrato sotto al corsaletto, per una delle commessure, e gli stringe non più la corazza ma la carne viva. E gli deve far male, poiché quando mi avvicino, invece di rimanersene inerte come prima, alla minima provocazione mi si volge contro, con certi strani sobbalzi, ergendosi sulle zampe di dietro, le corna tèse, come invitandomi a battaglia.

Cosi lo lascio alla sera, e così lo ritrovo il mattino di poi: salvo che il filo che lo stringe, in seguito ai suoi sforzi, gli è entrato ancor più profondamente sotto la corazza, e se continua a questo modo mi par quasi che esso debba finire per tagliarsi in due. E la sua eccitabilità del giorno innanzi è ancor cresciuta, è diventata una animosità furente, appena io faccia cenno di toccarlo. Bizzarramente, mi sento portato al livello di codesto animaletto, come se veramente potesse sussistere tra me e lui un rapporto personale preciso, uno scambio di sentimenti e una reciproca comprensione: si che quando mi decido a liberarlo da quella pena e a legarlo di nuovo per una zampa, ma con più avvedutezza dell’altra volta, mi par quasi per un momento, afferrandolo, e mentre esso si dibatte con frenesia intanto che io lo libero con uno strappo da quel filo che si era ormai saldamente incuneato nel vivo, sotto l’armatura, che dovrebbe invece comprendere che io sto facendo il suo bene; e tenersi tranquillo. Come si vede nelle fotografie dei giornali illustrati, l’elefante o la scimmia che si lasciano tranquillamente operare dal dentista, e altri esempi di commovente intesa tra l’uomo sapiente e i suoi diseredati fratelli di natura. Ma poi ci rido sopra. E legata per bene la bestia per una zampina, là dove una strozzatura mi sembra dare garanzia di sicurezza, me ne vado.

Dopo qualche ora, uscendo soprappensiero sul terrazzo, la cosa che dapprima mi coglie lo sguardo, senza che ancora la mia mente si sia rivolta al mio bellicoso prigioniero lì accanto, è il filo, che non più teso come dovrebbe, è lì che oscilla mollemente all’aria, come l’altra mattina. Già, anche stavolta s’è liberato, non so con quali sforzi. Il filo è tutto attorto, cinque e sei volte, attorno a uno stelo, e il nodo appare come sfilacciato per l’attrito. Spero, tuttavia, di ritrovare la bestia lì attorno, come l’altra volta, e scuoto a una a una le piantine, sollevandone le foglie. Ma non trovo niente. Riguardo ancora, proprio non c’è. E allora, mentre mi rialzo in piedi, deluso e dispiaciuto con me stesso, ecco d'improvviso un gran rombo, e lì dalla balaustra a un passo da me ecco alzarsi a volo, con un turbinare d’elitre bionde, il mio prigioniero: alzarsi rapidamente, trionfalmente nell’aria, nitido ed enorme nella liquida luce, e perdersi lassù, oltre un grosso ciliegio. Come avesse atteso con pazienza, per levarsi a volo, quel preciso istante, calcolato per infliggermi a pieno il senso della mia delusione, e della sua vendetta finale.

Alberto Rossi.

File: PDF, TESTO

Collezione: Diorama 15.07.31

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Citazione: Alberto Rossi, “Il cervo volante,” Diorama Letterario, ultimo accesso il 17 maggio 2024, https://dioramagdp.unito.it/items/show/74.